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CHI NON CI È PERMESSO CRITICARE..
mercoledì 27 gennaio 2021
IL COLORE DELLA TERRA (PARTE SECONDA)
IL COLORE DELLA TERRA (PRIMA PARTE)
domenica 24 gennaio 2021
UNA STORIA DIMENTICATA ... SILVIA BARALDINI !!
Una condanna enorme se si pensa che, come canta Francesco Guccini, “Silvia non ha mai ucciso e non ha mai rubato niente”…
Quella che segue è la prima intervista che ha potuto rilasciare nel 1992 a Famiglia cristiana.
Per la prima volta il governo degli Stati Uniti ha concesso un colloquio con Silvia Baraldini, condannata a 43 anni per terrorismo
Franca Zambonini
Famiglia Cristiana n.46
18 novembre 1992
I capelli sono tutti grigi, tagliati corti, gli occhi celeste chiaro guardano dritto, il parlare è preciso e non emotivo, con punte di ironia e perfino qualche risata che libera dalla tensione. Nelle cinque ore passate con lei, Silvia Baraldini mi è parsa nel complesso serena per essere una donna di 44 anni condannata dalla giustizia americana a 43 anni di carcere.
Ne ha già scontati dieci in varie prigioni degli Stati Uniti. Adesso è detenuta nell’unità di massima sicurezza della Federal Correction Institution, la prigione federale di Marianna, Florida.
Questa è la prima intervista che le è stato concesso di rilasciare. Né io né Silvia sappiamo spiegarci perché. Forse, ma è solo una mia ipotesi, il permesso d’incontrarci rappresenta un minuscolo gesto di comprensione dopo che a Silvia è arrivata, proprio in questi giorni, l’ultima botta: le autorità americane hanno respinto per la seconda volta la richiesta delle autorità italiane di estradarla per farle scontare il resto della pena in un carcere nostrano. Eppure in suo favore erano intervenuti negli anni Cossiga, Andreotti, De Michelis, Martelli, dall’alto dei loro incarichi pubblici. Niente da fare. “Ma no, non è stata questa gran botta. Me l’aspettavo. Il trauma vero l’ho avuto quando mi hanno negato l’estradizione la prima volta, il 20 dicembre del 1990. Comincia a prepararti per il ritorno, mi scrivevano i miei amici dall’ Italia. Quel “no” inatteso è stato uno choc duro da assorbire”.
L’estradizione era stata chiesta in base alla Convenzione di Strasburgo, che concede a un condannato in un altro Paese di scontare la pena in un carcere del Paese d’origine. Perchè nel suo caso gli americani hanno detto no, pur avendo sottoscritto la Convenzione?
“Ho molti dubbi sul comportamento delle autorità italiane. Il periodo in cui fu avanzata la richiesta coincideva con lo scandalo della filiale di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro, che aveva prestato miliardi a Saddam Hussein. Adesso i giornali rivelano che alcuni politici italiani fecero pressioni presso l’allora ministro della Giustizia Richard Thornburg affinchè il ruolo dei funzionari italiani della Bnl in quella vicenda venisse ignorato o non sottolineato. La mia idea è che gli italiani non hanno voluto imporsi con due interventi contemporanei: uno, molto delicato, a favore della Bnl e uno, molto sgradevole, a favore di una persona scomoda come me, cittadina italiana condannata in America per atti di terrorismo”.
Il rifiuto è stato motivato dal viceministro della Giustizia Robert S. Mueller dal “nostro timore che, nel caso tornasse in Italia, la Baraldini sconterebbe una pena sostanzialmente minore di quella comminatale negli Stati Uniti. Tale eventualità sarebbe per noi inaccettabile per i seguenti motivi:
L’estrema gravità dei reati di cui si è resa responsabile;
Il suo protratto rifiuto a collaborare;
L’assenza di pentimento;
il nostro convincimento che, in caso venisse posta in libertà, la Baraldini tornerebbe a svolgere attività delittuose pregiudizievoli per gli Stati Uniti”.
Silvia ha la sua spiegazione: “Dovevo collaborare con l’ Fbi, questo è il punto vero. Quando sono stata arrestata, il 9 novembre del 1982, gli agenti della squadra antiterrorismo dell’Fbi mi hanno offerto 25 mila dollari (in lire, 30 milioni, ndr) per denunciare i compagni. Nel settembre dell’ 85 sono tornati alla carica, e questa volta mi offrivano la libertà. Ho detto di no. Non si sono fatti più vivi. Forse aspettano un mio segnale. Ma per loro non ne ho. Non potrò mai scambiare la mia vita con quella degli altri”.
Non ha mai ucciso nessuno, né sparato contro nessuno. È stata condannata a 40 anni per “cospirazione” in base alla legge “Rico”, più altri tre anni per “sprezzo contro la Corte”. “Rico” è la sigla di Racketeering Influenced and Corrupt Organization Act. è la legge promulgata per colpire la mafia e la criminalità organizzata. Chi fa parte di un’associazione per delinquere diventa automaticamente corresponsabile dei suoi reati più gravi. La “Rico” è stata estesa ai movimenti terroristici. “Io non sono una terrorista, ma una prigioniera politica. In pratica mi sono stati imputati solo due reati concreti: la partecipazione all’evasione della rivoluzionaria nera Joanne Chesimard, che è scappata a Cuba; un tentativo di rapina che non è mai successa. Il resto me lo hanno addossato con la legge “Rico”. Hanno paura che se vengo estradata in Italia sarò scarcerata molto presto? Io non l’ho mai pensato, non vedo in Italia tutte queste scarcerazioni. E temono che se per assurdo tornassi in libertà potrei rappresentare un pericolo per l’America? Ma andiamo, è assolutamente ridicolo che il Paese più potente del mondo abbia paura della povera Baraldini”.
Allora, perché vuol venire a scontare la pena in Italia? “Dopo la morte di mia sorella Marina, mia madre è rimasta sola, voglio esserle vicina anche se in prigione. E poi perché credo che qualsiasi carcere italiano sia meglio di quelli americani, che sono efficienti, pulitissimi, organizzatissimi, ma ignorano i bisogni delle persone detenute”.
Rassegnata? “No, per favore, non voglio usare questa parola. Ho vissuto finora con la speranza di essere estradata, quindi con un piede emotivo in Italia e l’altro reale negli Stati Uniti. Ma ora la realtà è che sono in una prigione americana e ci resterò a lungo.
Questa certezza mi aiuta a darmi uno scopo qui in carcere. Non è questione di resistere. Il 9 novembre finiscono i miei primi dieci anni di detenzione, ne ho passate di peggio e ho dimostrato di saper resistere. Non è neanche questione di sopravvivere al regime carcerario, ma di viverci. Mi sono riorganizzata su questa base. Ho ripreso a studiare per quella laurea in storia che non avevo mai preso”.
Nell’inferno di Lexington
“La mattina lavoro alla biblioteca legale del carcere. Aiuto le altre detenute a scrivere ai giudici, agli avvocati. Poi faccio esercizio fisico, voglio tenermi in forma. Siccome sono la nona nella graduatoria di anzianità carceraria ho ottenuto il privilegio di una cella singola. Questo è un carcere di massima sicurezza, cioè con un livello molto sofisticato di custodia, altoparlanti in cella e il controllo di ogni conversazione, e anche piccoli trasferimenti per una visita sanitaria esigono le manette e la cosiddetta “scatola nera” che non ti permette di muovere le mani… Ma insomma, una come me che ha passato 19 mesi nell’inferno di Lexington qui respira”.
L’inferno di Lexington. Un carcere sotterraneo, sofisticatamente persecutorio inventato per tre detenute irreducibili e la Baraldini era una delle tre: isolamento totale, luci sempre accese, oltraggiose perquisizioni, bagni senza porte, e per tre mesi di fila la tortura della sveglia notturna ogni venti minuti. Con un trattamento simile, noi che eravamo tutte e tre persone adattabili e perfino allegre, ci comportavamo come belve feroci”. Dopo una campagna di denuncia da parte di Amnesty International contro il carcere di Lexington, definito la vergogna di un Paese civile, gli Stati Uniti sono stati costretti a chiuderlo.
A Lexington Silvia si è ammalata di cancro. Attribuisce la malattia a una somatizzazione delle torture psicologiche. È stata trasferita a Rochester e operata due volte, le hanno tolto l’utero. Poi è stata mandata a Marianna.
Marianna, nel Nord della Florida, sorge ai lati della Statale 90. Una cittadina incredibilmente lunga e stretta, sparsa qua e là, due miglia separano la Chiesa Battista dell’Est dalla Chiesa Battista dell’Ovest, il tribunale è distante tre miglia dalla posta, dall’unico motel alla prigione corrono cinque miglia.
Questo nonsenso geografico è stato fondato da uno scozzese di cui non si ricorda il nome, mentre si ricorda quello della moglie: Marianna, appunto. È in mezzo a foreste e acquitrini, i grandi alberi hanno quelle lunghe barbe pendenti che si vedono in tutte le foto della Florida, fa molto caldo e umido, un tempo era il regno degli indiani Seminole, e Seminole si chiama il grande lago. Attira cacciatori e pescatori, produce cocomeri, meloni e zucche venduti in capanne ai lati della strada. Ha una sola industria, la Federal Correction Institution, la prigione federale, molto moderna, costruita nell’88, sparsa anch’essa per miglia su una pianura ondulata e rapata di ogni vegetazione che non sia l’erbetta.
L’Unità femminile di massima sicurezza è a un paio di miglia dall’ingresso centrale, isolata rispetto agli altri edifici. Il mio arrivo è stato preceduto da un lungo carteggio col Dipartimento di Giustizia: mi sono impegnata a studiare le otto pagine del regolamento federale sui rapporti carcerari con la stampa, ad assumermi le eventuali conseguenze dei rischi connessi ad una visita alla prigione, a non introdurre né armi né droga, si capisce, ma neppure soldi, o libri o fogli di carta, a non rivolgere la parola a nessun’altra detenuta che non fosse la Baraldini.
Quando mi presento, alle otto e mezzo di un mattino caldo e nebbioso, le formalità sono tutte gentilmente facilitate. Nessuna perquisizione, borsa, giornali e giacca in un armadietto di cui tengo la chiave, posso portare in mano il registratore, la macchina fotografica e il fazzoletto. Mi stampano sulla mano sinistra un marchio con inchiostro invisibile. Io non lo vedo, ma lo vedono gli occhietti elettronici che mi seguono localizzando ogni mio movimento; una detenuta potrebbe impadronirsi dei miei vestiti per tentare la fuga, ma non di quel mio marchio invisibile senza il quale non farebbe un passo.
Silvia m’è venuta incontro nella stanzetta separata del parlatorio, insieme con la guardiana che assisterà al nostro colloquio. Indossa una maglietta bianca sui jeans, una maglietta “militante” contro l’Aids, con le parole: “Ignoranza uguale Paura, Silenzio uguale Morte”. è un po’ ingrassata rispetto alle sue ultime foto.
“Sì, sto bene. Ho il senso dell’umorismo, mi adatto, riesco a mangiare perfino quel cibo indescrivibile che passano nelle carceri americane”.
Non ha pena per la sua giovinezza sprecata, gli anni migliori buttati via? “Accetto le conseguenze delle decisioni che ho preso. Non puoi tirarti indietro se scopri che le cose sono più dure di come te le figuravi. E poi in prigione ti inventi una vita che ha valori e significato. Vorrei convincere la gente che non sono una vittima delle circostanze, ma una responsabile delle mie scelte. Anche nei periodi più duri, quando ero rabbiosa e malata, ho cercato il lato positivo. Manca la libertà, che è fondamentale. Ma ho interessi, amicizie. A Lexington vincemmo la battaglia contro quel carcere disumano, che non poteva continuare ad esistere per essere usato contro altri dopo di noi. Oggi la maggior parte di noi detenute politiche ci occupiamo di migliorare le condizioni in carcere, abbiamo la capacità organizzativa imparata nei movimenti, i nostri contatti e gruppi di opinione ci danno risorse che possono essere utili alle altre. Qui per esempio, facciamo lavoro di informazione sull’Aids per le detenute: l’ottanta per cento sono condannate per reati di droga. L’Aids è l’epidemia delle carceri americane, una tragedia ignorata dalle autorità”.
“Una brava ragazza con idee sbagliate”
Sua madre Maria Dolores, che vive a Roma, ha detto di lei: “Silvia è una brava ragazza, sono le sue idee ad essere sbagliate”. Riferisco il giudizio e Silvia ha una di quelle risate così sorprendenti dentro queste mura sinistre tinte di bianco accecante “Con mia madre ho un rapporto franco e aperto. La mia detenzione ci ha forzate a parlarci in maniera brutalmente onesta. Per lei e per la mia povera sorella Marina dev’essere stato un gran passo, molto sofferto, quando hanno deciso di appoggiarmi”.
Le sorelle Baraldini, nate a Roma, raggiunsero i genitori negli Stati Uniti quando Silvia aveva 14 anni e Marina 10. Il padre, Michele, era prima dipendente dell’Olivetti a New York, poi impiegato all’ambasciata italiana a Washington (è morto di infarto nel ’68). “In America ci sentimmo subito due spaesate. Marina, soprattutto, non si è mai abituata; finita l’università è tornata in Europa, a 22 anni. Era una ragazza particolarmente intelligente e delicata, ha trovato subito lavoro, prima al Parlamento europeo e poi alla Cee”.
Le due ragazze volevano cambiare il mondo, anche se attraverso strade opposte. La vicenda di Marina, che in Italia aveva smosso l’opinione pubblica in favore della sorella, è tragicamente finita nel 1988. L’aereo su cui viaggiava come capo della missione europea di aiuto ai Paesi del Sahel, è esploso sulla Nigeria, forse per una bomba. Silvia piange ricordando la sorella: “Specialmente negli ultimi tempi avevamo imparato ad appoggiarci a vicenda. Mi sconvolge il pensiero che, se mai tornerò in Italia, non la troverò più”.
Il primo incontro di Silvia con la politica risale al suo ultimo anno di liceo quando entrò a far parte di un gruppo studentesco che appoggiava la protesta per i diritti civili dei neri. Poi si iscrisse all’università statale del Wisconsin, la più impegnata degli Stati Uniti, dove uno sciopero contro la partecipazione americana alla guerra del Vietnam raccoglieva diecimila studenti e durava un mese. Era il leggendario Sessantotto, così esaltante e così infido.
“Io mi trovai molto naturalmente nel cuore del dissenso giovanile. Ho lasciato l’università nel ’70, per impegnarmi a tempo pieno nel movimento di protesta. Parlavo nelle chiese a favore dei diritti dei neri, sono entrata nel comitato di difesa politica di una ventina di Pantere Nere coinvolte in un processo. Infine ho fatto parte del movimento comunista “19 Maggio”, che si ispirava a Malcolm X il rivoluzionario nero. L’accusa contro di me è di essere passata da un appoggio verbale a fatti rivoluzionari”.
È vero? “Questo non l’ho mai detto e non lo dico adesso, perché la mia risposta coinvolgerebbe altre persone. Non posso anteporre il mio benessere a quello di altri. La posizione mia e dei compagni è sempre stata una responsabilità politica collettiva ma non una confessione individuale. D’accordo i tempi sono cambiati. Ma ha ragione Renato Curcio quando sostiene che occorre una soluzione collettiva alla tragedia di quegli anni. Riconosco i cambiamenti enormi del decennio, però preferisco finire la mia condanna, anche se singolarmente ingiusta e persecutoria, piuttosto che compromettere altri compagni”.
Si definirebbe un’irriducibile? “No, questa parola ha un significato politico col quale non sono d’accordo. Anche se le mie idee in molte cose sono cambiate, non posso usare questi cambiamenti per giustificare un pentimentismo che mi porterebbe a collaborare. La pago cara, ma non sono l’unica”.
Come vede il futuro? “Resterò in prigione fino al 2011, con gli sconti per il lavoro e la buona condotta. E a quel punto, finalmente, mi butteranno fuori dagli Stati Uniti e tornerò in Italia”. Di che cosa ha paura? “Mi è successo tanto di tutto che il mio concetto della paura è cambiato. In prigione ho imparato a non reagire immediatamente, ma prima a respirare a fondo, poi aspettare un giorno o due poi valutare le possibilità, e infine scegliere la decisione migliore. Così ho meno paura. Credo sia una buona regola anche per chi sta fuori”
Fonte :
https://www.ugomariatassinari.it/
... DA SEMPRE L'IGNORANZA FA PAURA E IL SILENZIO È UGUALE A MORTE!! ...
BOMBACCI, IL COMUNISTA IN CAMICIA NERA...
Gli scherzi della storia. Il primo comunista italiano, amico personale di Lenin, morì da fascista, fucilato a Dongo e poi appeso per i piedi dai suoi ex-compagni a Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Era Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Finì col rappresentare il fascismo socialrivoluzionario.
A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti si occupa in particolare, con dovizia di fonti e di particolari, del ruolo di Bombacci nella Repubblica Sociale a Salò, ne ricostruisce i nessi e la storia, le sue relazioni con Mussolini. E restituisce un personaggio controverso ma cruciale, rimasto a lungo nella penombra perché imbarazzante quasi per tutti, fascisti, antifascisti e comunisti. Bombacci fu una figura leggendaria, un personaggio che meriterebbe un film, una fiction televisiva, una narrazione popolare perché racchiude nella sua esperienza le due principali rivoluzioni del Novecento che si incrociarono nel sangue dopo la Prima guerra mondiale e poi negli ultimi due anni della seconda.
Nel 1921 Nicola Bombacci fondò insieme a Gramsci, Togliatti, Tasca e ad altri fuorusciti dal Psi il Partito Comunista d’Italia. Fu proprio lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. “Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo” così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata. Romagnolo come lui, quattro anni più di Mussolini, maestro elementare pure lui, cacciato anch’egli dalla scuola perché sovversivo, compagno di lotte, di prigione e di giornali del futuro duce, e come lui nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista e fascista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso ed esposto con lui a piazzale Loreto, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva Mussolini (o “l’Italia,” secondo altri).
A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin) e da una famiglia cattolica e papalina di Civitella di Romagna; egli dunque attraversò nella sua vita tutte le fedi nazionali: il cristianesimo, il socialismo, il comunismo e il fascismo. Pagando sempre di persona. L’anno in cui fondò il Pcd’I, Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci/ faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba fluente. Barba e zazzera biondastre e incolte, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce lenta e appassionata, impetuoso oratore e trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: “una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…” Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, perché i suoi occhi e la sua parola stregavano le donne, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio quando questi proclamò a Fiume la Carta del Carnaro.
Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: “li conosco i comunisti, sono figli miei”. Fu Bombacci a organizzare la clamorosa uscita del folto gruppo parlamentare socialista alla Camera il giorno dell’insediamento, prima che parlasse il Re, al grido di Viva il socialismo. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani ad essere ricevuto in separata sede da Lenin nel 1920. Prima di partire, Bombacci ricevette da Lenin denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del Partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincise, forse non casualmente, con il 28 ottobre del 1922 quando i fascisti marciarono su Roma. Fu così che mentre i leader comunisti italiani erano a Mosca a festeggiare la rivoluzione bolscevica, Mussolini conquistava senza resistenze rosse il potere a Roma. Da allora Bombacci, collaboratore della Pravda, diventò un sostenitore dell’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in parlamento. Bombacci poi sostenne la necessità per i comunisti di infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come entrismo negli anni 30). Fu lui il primo comunista a entrare nella Camera dopo l’avvento di Mussolini al potere. Non fu arrestato né aggredito, come si temeva. Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia di Mussolini era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici, a quanto pare, suo tramite. Bombacci andò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin, e fu il più apprezzato tra gli italiani. Incontrò più volte anche Stalin.
Bombacci fu espulso dal partito per deviazionismo e indegnità politico-morale il 1928, dopo aver dato vita al primo traffico commerciale tra l’Italia e l’Urss attraverso un’agenzia di export-import con l’est comunista; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Anche allora si parlò di tangenti, i comunisti lasciarono cadere i sospetti su di lui, ma Bombacci continuò per tutta la sua vita a navigare tra i debiti, aiutato poi proprio dal suo antico compagno e rivale Mussolini. Che prima aiutò i suoi famigliari e poi gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. Mussolini gli finanziò pure l’unico giornale fasciocomunista degli anni Trenta La Verità, che già nella testata ricordava la Pravda. Un giornale odiato da Starace e dai fascisti, che continuò a uscire fino al 1943. Dalle sue pagine fu anche teorizzata l’Autarchia.
Bombacci perseguì nella rivista il progetto di unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino fino al ’41, quando la rottura del patto Molotov-Ribbentrop e l’alleanza del comunismo con le plutocrazie occidentali lo portò a condannare l’abbraccio con il capitalismo e a schierarsi con il fascismo.
Ai tempi di Salò Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più quella rivoluzionaria e incolta, da Garibaldi o Che Guevara; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati e più borghesi. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista fascista Francesco Grossi lo ricorda così: “con le inflessioni romagnole ineliminabili”, “caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore”. Il suo ruolo nella Rsi fu decisivo: si deve a lui l’uso del termine socializzazione e fu lui a scrivere la prima bozza che dette vita alla Carta di Verona e a sognare, insieme al fascismo di sinistra, la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee.
In quel tempo Bombacci e Carlo Silvestri volevano riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento: Vincenti qui ne approfondisce i passaggi. Con Silvestri Bombacci promosse e sostenne l’estremo tentativo di Mussolini di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria attraverso un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: memorabile fu il suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del 1945, in cui ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in un’ingenua lettera entusiasta a Mussolini. Era ancora convinto che la forza dei discorsi potesse superare la forza delle armi e modificare la realtà. Fu così che Bombacci si ritrovò fino all’ultimo con Mussolini, nella colonna fermata a Dongo. Per essere poi fucilato ed esposto con il cartello di supertraditore. Di lui caduto si ricordano gli occhi azzurri rivolti verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.
MV, prefazione a A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti, Eclettica edizioni (2020)
http://www.marcelloveneziani.com/
venerdì 22 gennaio 2021
PARENZO E IL LEGO...
C'è un nuovo soldatino al servizio di Giuseppe Conte e risponde al nome di David Parenzo. Chi segue La Zanzara lo sa: ora è (quasi, non esageriamo) più filo governista di Marco Travaglio. Sparacchia su Matteo Renzi e sovranisti (in verità, lo fa da sempre) ed è ben fedele alla linea del Pd, ossia in questa peculiare contingenza a quella del presunto avvocato del popolo. E tale fedeltà, David, la dimostra anche a L'aria che tira, il programma di Myrta Merlino su La7, dove con sommo imbarazzo degli astanti si prodiga nel giustificare l'ultima sparata - o proposta indecente - del presidente del Consiglio, il proporzionale (messo sul piatto in Parlamento pur di raccattar consensi e "fiducia" da chi rischia di sparire). Sale in cattedra, Parenzo, armato di un pezzo di Lego grazie al quale spiega al popolino che "il proporzionale è esattamente come questo Lego di mio figlio". Ovvero? "I pezzi li puoi smontare e rimontare, a patto che poi venga fuori una costruzione di senso. Da questa macchinetta ci puoi fare anche un elicottero, i pezzi sono abbastanza intercambiabili in questo momento", pontifica David Parenzo. E insomma, se ne evince che il proporzionale può essere financo un elicottero, dunque può diventare qualcosa di buono, bello, proficuo, utile. E a pensare che il proporzionale sia qualcosa di buono, bello, proficuo e utile, sul globo terracqueo, sono rimasti Parenzo, Conte i cespuglietti parlamentari che flirtano col 2 per cento.
Fonte: https://www.liberoquotidiano.it/
IL CUORE NEL POZZO ... ALTRA "SCOMODA" VERITÀ !!
La fiction venne trasmessa in Italia su Rai 1 il 6 ed il 7 febbraio 2005 in due puntate. Era la prima volta che la TV di stato ...
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CRISTIAN PERTAN, "BOCCIA" 01- 01- 2005 01- 01- 2021: PRESENTE ! Cristian nasce a Trieste, il 1 giugno 1974, da Mario Pertan ...
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Dieci anni fa, il 26 settembre 2006, grazie all’indulto, dopo 16 anni di carcere speciale in America, 2 a Rebibbia e...










