sabato 30 gennaio 2021

TIOCFAIDH ÀR LÀ !!


"Gente che passava, gente che cadeva sulle strade di Derry e di Belfast
Il bollettino di guerra diceva a tutti noi che domani è un altro giorno e tu lo sai!

Questa è la mia terra e noi siamo nati qua insieme a questa voglia di libertà!
Regina d'Inghilterra e principe di York: qui cadono bombe ed il resto non lo so!

Sui muri, scritte a mano, i ragazzi del Sinn Féin insegnano il gaelico anche a noi
Arrivano di notte coi carri e coi blindati, ma i nostri figli sono tutti armati!

Venite avanti, non ce ne andremo, perché siamo nati qua ed abbiamo mille sogni da salvare!
Regina d'Inghilterra e principe di York: un vaffanculo ed il resto non lo so!

Signora che dormi nel tuo letto di diamanti, ricordati bene i figli del bloody Sunday
Ricordati ora, seduto vicino a te, c'è un uomo che parla: il suo nome è Bobby Sands!

Questa è la mia terra e noi siamo nati qua, insieme a questa voglia di libertà!
Regina d'Inghilterra e principe di York: è già l'aurora ed il resto non lo sò!" 

(Testo ANTICA TRADIZIONE) 

NIETZSCHE E IL CRETINISMO DEGLI ATTEGGIAMENTI FEMMINEI


Nietzsche pronosticava l’avvento di una donna insopportabile, la banchiera, la giornalista, la politica, la difensora dei diritti umani, l’eurodeputata, la femminista, la moralista

Chiamiamolo piagnisteo: viviamo dei tempi Bovary caratterizzati dal debito, dallo spreco, dal consumismo euforico, dalla “gente”, dal “piagnisteo umanitario” , l’odio tollerato degli uomini, in particolare di quelli bianchi. Questi tempi sono effeminati post-storici o femministi come si vuole. Sono anche segnati dalla generale amarezza e da un risentimento universale, senza dimenticare una buona sensazione di catastrofe.
Questo testo è una risposta al troppo ottimista Brandon Smith ed al suo testo sugli uomini e le donne tradotto da Hervé per lesacherfrancophone.fr.  Dato che viviamo nei tempi congelati della democrazia borghese da due secoli, richiamerò ciò che ne dice Nietzsche nelle pagine più geniali e più attuali dell’opera “Al di là del bene e del male”. La visione di Nietzsche “Guénoniana” , si accorda con il Kali-Yuga (1). Non difendiamo qui un uomo buono contro una donna cattiva, diciamo semplicemente che questo femminismo “navigato” che trionfa con l’arroganza imperiale-umanitaria è la cattiva femminilità.
Nietzsche pronostica l’avvento di una donna insopportabile, la banchiera, la giornalista, la politica, la difensora dei diritti umani, l’eurodeputata, la femminista, la moralista :
sfortunati noi se le qualità “eternamente noiose della donna”, di cui essa è tanto dotata, osano mettersi in carriera.
La sua emancipazione provoca il nostro abbrutimento generale (non posso più sopportare di vedere un’attrice moderna, non sopporto che Liz Taylor,  Ann Harding, Audrey Hepburn o Deborah Kerr, poiché il cinema dell’età d’oro riproduceva suo malgrado i canoni classici …)
La donna vuole emanciparsi: per questo si mette a illuminare l’uomo sulla “donna in sé stessa”. – Ecco uno dei progressi più deplorevoli del generale abbrutimento dell’Europa. Perché,  che cosa possono produrre questi sinistri saggi di erudizione femminile e di messa a nudo di sé!
Un uomo che vuole illuminarsi da parte sua è l’uomo del Giardino dell’Eden. Nietzsche ritornerà biblico?
Siamo nel secolo delle rivendicazioni :
“Già si fanno sentire delle voci femminili che, per Sant’ Aristofane!, fanno fremere. Si spiega con una chiarezza chirurgica ciò che la donna vuole in prima e in seconda battuta dall’uomo. Non è forse una dimostrazione di supremo cattivo gusto questa furia della donna a voler diventare scientifica !”
Segue un grande passaggio circa la sensibilizzazione e i piagnistei umanitari :
“Al giorno d’oggi  vi sono quasi dovunque in Europa una sensibilità e un’irritabilità morbose  per il dolore e anche una spiacevole incapacità di trattenersi dal compiangersi , una femminilizzazione che vorrebbe ammantarsi di religiosità e di un’accozzaglia filosofica per farsi notare di più – c’è un vero culto del dolore. Io credo che salti agli occhi immediatamente la mancanza di virilità di ciò che  in questi ambienti esaltati viene chiamato “compassione”. Bisogna bandire vigorosamente e radicalmente questa nuova specie di cattivo gusto, e desidererei che alla fine ci si mettesse attorno al collo e sul cuore l’amuleto protettore del “gai saber” (2) o del “gai savoir” (la Gaia Scienza) tanto per dirlo in linguaggio ordinario.”
Nietzsche prevede persino i surgelati Picard (3):
“A causa di pessime cuoche –  a causa di una completa carenza di buon senso nella cucina, lo sviluppo dell’uomo è stato ritardato e ostacolato per lungo tempo: e non è che al giorno d’oggi vada meglio. (§234)
Un’epica digressione: (§238)
“Sbagliarsi a proposito del problema fondamentale dell’uomo e della donna, negare l’antagonismo profondo che c’è tra i due e la necessità di una tensione eternamente ostile, sognare magari di uguaglianza dei diritti, di educazione uguale, e di uguali pretese e doveri, ecco gli indici tipici della piattezza d’animo.”
Si può immaginare come sarebbe ricevuto Nietzsche in televisione o al Parlamento Europeo  ( Guardate il divertente film “Verità spiacevole” con Butler al proposito)! Ma passiamo oltre.
Nietzsche rimpiange qui il machismo Greco che nel IV secolo prendeva il volo: “Invece un uomo che possiede profondità di spirito e di desideri, e anche quella profondità di benevolenza che è capace di severità e di durezza e che si atteggi senza sforzo in tal modo, non potrà mai avere della donna altro che l’opinione orientale. Dovrà considerare la donna come una proprietà, come un oggetto che si può rinchiudere, come qualcosa di predestinato alla vita domestica e che adempie alla sua missione, e dovrà fondarsi qui sulla prodigiosa ragionevolezza dell’Asia, sul superiore-istinto asiatico, come hanno già fatto nel passato i Greci che sono stati i migliori eredi  e i migliori allievi dell’Asia, questi Greci che, come sappiamo, da Omero fino all’epoca di Pericle hanno fatto avanzare contemporaneamente col progresso della cultura e la crescita della forza fisica il rigore nei confronti della donna, un rigore sempre più orientale. “
Ma Nietzsche potrebbe moderare il suo machismo con i personaggi femminili omerici, tutti splendidi, o preferire a questo machismo la visione sovrana medievale (leggete il mio libro Perceval e la regina). Ma Nietzsche ignora sempre il medioevo troppo cristiano..
Lungo sviluppo tradizionale  al §239:
In nessun’altra epoca il sesso debole ha ricevuto altrettanti riguardi da parte degli uomini che nella nostra epoca. Ciò è conseguenza delle nostre inclinazioni e dei nostri gusti fondamentalmente democratici, tanto quanto la nostra mancanza di rispetto per la vecchiaia. Dovremmo forse meravigliarci se questi riguardi sono degenerati in un abuso?”
La chiave di tutto è la degenerazione dei tempi moderni. Per questo ho insistito su Guénon che Nietzsche avrebbe senza dubbio rimproverato (Come mi diceva 14 anni la mia prozia comunista che mi ha insegnato tutto, ” il tuo Nietzsche è limitato!” ).
Nietzsche: “Ciò che è più difficilmente comprensibile,  è che con ciò stesso… la donna degenera.  Questo  succede al giorno d’oggi: non sbagliamoci!  Dovunque lo spirito industriale ha avuto il sopravvento sullo spirito militare e su quello aristocratico, la donna tende all’indipendenza economica e legale di un impiegato . “La donna impiegato” sta alla porta della società moderna in via di formazione .”
La donna impiegato va bene per Hillary , Per Angela ( Merkel? -N.d.T.), per la Lagarde … La donna impiegato è “l’ultima donna”, per riprendere un’espressione Nietzschiana e geniale. Il maestro continua:
“Quanto più si impadronisce di nuovi diritti, quanto più si sforza di diventare “maestra” e agita sul suo vessillo il “progresso” della donna , tanto più con una evidenza terribile arriva al risultato contrario: la donna va indietro. Dalla rivoluzione francese in poi l’influenza della donna è diminuita nella misura in cui i suoi diritti e le sue pretese sono aumentati… ” .
Perdere il fiuto è tutto lì, il senso dell’odore e l’onore che, dice Pagnol, non serve che una volta sola:
“Perdere il fiuto dei mezzi che conducono più sicuramente alla Vittoria; trascurare di utilizzare le proprie armi;  lasciarsi andare davanti all’uomo forse ” fino all’abbandono”, laddove in precedenza si conservavano una riservatezza ed un’umiltà raffinata e scaltra; distruggere con un’ audacia virtuosa, la fede dell’uomo in un ideale fondamentalmente diverso nascosto della donna, in un eterno femminino diverso e necessario; sottrarre all’uomo, con insistenza e con abbondanza, l’idea che la donna debba essere nutrita, curata, protetta e accudita come un animale domestico, tenero, stranamente selvatico e spesso piacevole; radunare maldestramente e con indignazione tutto ciò che ricordava la schiavitù e il servaggio, nella situazione che occupava e  che occupa ancora la donna nell’ordine sociale (come se la schiavitù fosse un argomento contro l’alta cultura e non invece un argomento in suo favore, una condizione di grande elevazione della cultura); questo che cosa rivela a noi se non una perdita dell’istinto femminile e una mutilazione della donna?”
Il cretinismo maschile marcia di pari passo tanto in tempi socialisti e democratici quanto in  quelli liberali e borghesi, è la stessa roba :
“Senza dubbio esistono tra gli asini sapienti del sesso maschile, numerosi imbecilli amici e corruttori delle donne, che consigliano a queste ultime di deporre la femminilità e imitare tutte le bestialità di cui soffre oggi giorno in Europa l’uomo, la “virilità” europea, che vorrebbe avvilire la donna fino alla “cultura generale”, o anche fino alla lettura dei giornali e e fino ad occuparsi di politica. Si vuole persino, sia di qua sia di là, cambiare le donne in liberi pensatori e letterati. “
Guénon ha parlato molto bene, e anche Schuon, dell’orrore della cultura generale. Nietzsche insiste perché vede arrivare (o mio caro Molière !) il crimine della donna saggia e il riflusso della madre dell’imperatore: “Si vuole ulteriormente acculturare e, come si dice, fortificare “il sesso debole” con la cultura: come se la storia non ci dimostrasse nel modo più chiaro possibile che la “cultura” dell’essere umano e il suo indebolimento – ovvero l’indebolimento, la dispersione, e la decadenza della volontà, sono sempre avanzati contemporaneamente e che le donne più potenti del mondo, quelle che hanno avuto il maggiore ascendente, come la madre di Napoleone, erano debitrici della loro potere e della loro influenza sugli uomini alla loro forza di volontà e non a dei maestri di scuola ! “
Per Nietzsche l’Europa si fa semplicemente di nuovo rapire dalla bestia con le corna (sappiamo come l’Europa di Angela ha trattato la sua origine greca): stiamo forse per distruggere il fascino della donna? Stiamo lentamente facendola diventare insopportabile? Oh Europa! Europa! Conosciamo la bestia con le corna che per te ha sempre avuto il massimo di attrattiva è che tu ancora rimpiangi! La tua Antica leggenda potrebbe ancora  una volta diventare “storia” – una volta ancora una prodigiosa bestialità potrebbe impadronirsi del tuo animo e coinvolgerti! E lì non ci sarebbe nessun Dio nascosto, no! niente più che un’”idea “, un’”idea moderna” .
Ma la società moderna, in quanto femminile, nasconde dietro degli orpelli umanitari una certa crudeltà, che anche il Cristiano Chesterton (Vedete il mio testo sulla femminilizzazione americana del pianeta) :
” Nella vendetta come nell’amore , la donna è più primitiva dell’uomo (§139)”.
Gli è che l’uomo resta troppo poco reattivo : ” . . . l’uomo vuole la donna pacifica, –  ma la donna è essenzialmente battagliera, come un gatto, qualunque sia la sua abilità a conservare delle apparenze pacifiche (§131)”.
 
Nicolas Bonnal

Fonte:
 www.dedefensa.org
Link: http://www.dedefensa.org/article/nietzsche-et-la-cretinisation-par-la-feminine-attitude

https://comedonchisciotte.org/nietzsche-e-il-cretinismo-degli-atteggiamenti-femminei/
Traduzione dal francese per www.comedonchisciotte.org da GIAKKI49

 
Nota : nel XIX secolo, nota il Michelet , anche Dio ha cambiato sesso. La religione cattolica preparava anche il suo aggiornamento per i demoni e le necessità della nostra modernità diventata troppo… buona, dunque …anticristiana!
riferimenti
GK Chesterton- Ciò che ho visto in America (Gutemberg.org)
René Guénon – la crisi del mondo moderno; Il regno della quantità e il segno dei tempi
Evola – Metafisica del sesso
Omero – Odissea
Nietzsche – Al di là del bene e del male – capitolo VII, le nostre virtù (§ 231, 238, 239 ) .
Nicolas Bonnal – Perceval e la regina .
Maupassant – Le domeniche di un Borghese parigino – che ho citato in un altro articolo . Ricordiamo questa pungente descrizione della società : ” A destra, una delegazione di antiche cittadine, prive di marito, rinsecchite nel nubilato, ed esasperate dall’attesa, che fronteggiano un gruppo di cittadini riformatori dell’umanità, che non avevano mai tagliato né la loro barba né i loro capelli, per indicare senza dubbio l’infinito delle loro aspirazioni .”

NOTE A CURA DEL TRADUTTORE
1- La dottrina del ciclo Yuga ci dice che stiamo vivendo nel Kali Yuga, l’età delle tenebre, quando virtù morale e capacità mentali raggiungono il loro . più basso del ciclo. Il poema epico indiano Mahabharata descrive il Kali Yuga, come il periodo in cui l ‘”anima del mondo” è nero in tinta (da alkemica.net)
2 -Il Consistori del Gay (o Gai) Saber (vale a dire “Concistoro della Gaia Scienza”), detto oggi comunemente Consistori de Tolosa, fu un’accademia poetica fondata a Tolosa nel 1323 per far rivivere e perpetuare la tradizione poetica della lirica trobadorica. (Wikipedia)
3 – Surgelés Picard – Catena di distribuzione di alimenti preconfezionati e surgelati

venerdì 29 gennaio 2021

ESSERE ERETICI


Il termine “eresia” deriva dal greco αἵρεσις, haìresis derivato a sua volta dal verbo αἱρέω che significa scelta, nel senso anche di svolta.
E’ eretico chi si rifiuta di accettare ciò che viene spacciato come dogma o verità assoluta. L’eretico non si accontenta di facili definizioni o di schemi predefiniti. E’, innanzitutto, alla ricerca. Essere eretici è un metodo di vita. Impone di scavare dove ci dicono che non c’è nulla da scavare, di parlare quando tentano di zittirci, di porsi criticamente rispetto ad ogni dogmatismo. La libertà, al contrario del potere, genera la passione per l’agire pubblico e per la partecipazione creativa.
La standardizzazione dei comportamenti è un rischio per qualsiasi essere vivente. Il conformismo frena la capacità di adattamento. Blocca l’evoluzione, porta all’estinzione.
L’eresia genera relazioni, l’ortodossia le distrugge. Si creano relazioni autentiche solo entrando nella dinamica liberante dell’eresia che è “un “dare la vita” non in senso sacrificale ma svuotandosi di sé fino ad accogliere in quel vuoto ogni alterità”, come scrive Enzo Mazzi.
L’eresia è, prima di tutto, ricerca. Essere eretici richiede impegno, sia in pubblico sia in privato. Significa esporsi e presentare le proprie idee. Un eretico, infatti, è colui che, più di chiunque altro, mette in discussione lo status quo, osa essere straordinario, si impegna a fondo e non si limita a timbrare il cartellino, perché non ha paura. In un mondo di pecore molto istruite e pronte a seguire il gregge, vince chi riesce a non omologarsi.
L’eretico è portato a valorizzare l’eresia fino a vederla come arché, come forza primordiale in eterna espansione, creatrice di ogni trasformazione, iscritta in ogni atomo di materia. L’eretico auspica una società fondata non sulla contrapposizione ma sul riconoscimento e sul rispetto delle differenze, sull’autonomia, la collaborazione e la condivisione.
Esiste un metodo per attuare un cambiamento senza finire bruciati vivi sul rogo? Si, basta crederci. Se ci credi anche tu allora puoi cominciare a pensare ed agire ereticamente.

“Nella mente della maggior parte degli uomini vi sono alcune scintille di libertà, che normalmente giacciono nel profondo e sono coperte dalla tenebra come una scintilla nella cenere.” John Warr 

(Il dipinto Scene dell'Inquisizione (1720) fa parte di una serie di opere di Alessandro Magnasco dedicate a questa realtà drammatica) 

Fonte: 
https://www.ereticamente.it/essere-eretici/

IL MISANTROPO


In basso una scritta in fiammingo chiarisce il soggetto della piccola tela  

VLS «Om dat de werelt is soe ongetru / Daer om gha ic in den ru» 

IT «Poiché il mondo è così infido / Mi vesto a lutto» 

Un uomo anziano, dalla lunga barba bianca, procede silenzioso e mesto con le mani incrociate, indossando una cappa scura con cappuccio. Dietro di lui un ometto vestito da straccione, dal volto grottesco e dentro un globo trasparente con la croce sulla sommità, chiarissima metafora del Mondo, gli sta tagliando via una borsa per derubarlo, ma il sacco ha l'evidente forma di un cuore umano, simboleggiando quindi la delusione e l'inaridimento dei sentimenti che la vita nella società comporta. Le spine e il fungo velenoso che poi si trovano davanti all'uomo simboleggiano il pericolo del suo cammino.



giovedì 28 gennaio 2021

PALESTINA LIBERA! 🇯🇴🇯🇴

Il mondo ci ha tacciato Di briganti e di assassini di uccisori Di donne e di bambini Ma nessuno vuol vedere I corpi straziati dei nostri figli Sotto i carri armati I campi devastati Dal fuoco americano Sui nostri corpi Dalle iene di Sharon Ma tra le dune sorge Il mitra di Settembre Nero Sulla Palestina ora rivive Lo spirito guerriero Troppo ci pesava Il bastone da pastore I nostri figli preferiscono il fucile L'odio che han sorbito Con il latte delle madri Ora esplode negli aerei della EL AL Troppo ci pesava Portare sulla schiena Il dominio di una razza di mercanti Se con l'oro hanno comprato La mia casa e la mia terra La mia libertà si paga con il sangue! E tra le dune sorge Il mitra di Settembre Nero Sulla Palestina ora Rivive lo spirito guerriero Gridano "shalom" Bruciandoci le case Cantano pace e ci violentano le donne Aiuta chi è più ricco Baionette ai moribondi Queste sono le leggi di Mosé Ma a noi indicò Maometto La strada da seguire Il nostro Allah si onora col tritolo A chi predica la pace Massacrando la tua gente Dal Corano il nostro Dio Risponde guerra! E tra le dune sorge Il mitra di Settembre Nero Sulla Palestina ora Rivive lo spirito guerriero

CHI NON CI È PERMESSO CRITICARE..

“Per capire chi vi comanda basta scoprire chi non vi è permesso criticare”. Questa frase è stata attribuita a Voltaire. Se sia stato effettivamente lui a pronunciarla o altri, poco conta. Ciò che conta è che è assolutamente condivisibile, per lo meno per quanto mi riguarda. Già da tempo ho cominciato a fare questo gioco, una sorta di “m’ama, non m’ama”, come si faceva da ragazzini con le margherite, e ho provato ad applicarlo alle diverse vicende del mondo. Facendo questo gioco, mi sono reso conto che nell’attuale contesto storico che ci è toccato in sorte di vivere, due cose, molto diverse fra loro (ma con forti punti di contatto che fra poco vedremo), sono assolutamente incriticabili e incontestabili, pena l’ostracismo, l’emarginazione sociale e umana, l’esposizione al pubblico ludibrio, la chiusura di ogni spazio pubblico e molto spesso anche privato, la fine di ogni possibilità di inserimento, di carriera o di promozione sociale. Queste due “cose” sono Israele e il femminismo.
Ho visto tante persone nel corso della mia vita, anche intelligenti, colte, oneste e degne di stima, fare brillanti carriere accademiche (o in altri ambiti) nonostante fossero comuniste rivoluzionarie dichiarate e militanti, anche in formazioni di estrema sinistra. Ho visto tanti altri dichiarare e professare pubblicamente il loro anticapitalismo e il loro antiamericanismo viscerale, politico e ideologico. Anche in questo caso, le loro posizioni non hanno costituito un ostacolo alle loro carriere e al loro excursus professionale. Se qualcuno fra questi (o altri) si fosse invece sistematicamente e pubblicamente impegnato nel sostenere che Israele è uno stato razzista, guerrafondaio e terrorista, che specula vergognosamente sulla tragedia dell’Olocausto per coprire i propri crimini, i cui confini non sono ancora stati volutamente definiti perché è loro ferma intenzione continuare ad espandersi e rubare altra terra agli arabi, il cui atto di fondazione è un’aggressione a mano armata nei confronti del popolo palestinese, e che per tali ragioni è da considerarsi un’entità illegittima, non solo non avrebbe fatto carriera in ambito accademico (o in qualsiasi altro ambito) ma non sarebbe neanche stato assunto come bidello. E questo è un fatto che non può essere negato, e chi lo nega è in malafede. Nella stessa misura, subirebbe la stessa sorte chiunque osasse mettere radicalmente in discussione o anche semplicemente criticare la narrazione ideologica femminista ormai da tempo largamente dominante. E anche questo è un fatto. E anche in questo caso chi lo nega è in malafede. Piaccia o no, è così. E allora una riflessione sorge spontanea, perché se le cose stanno effettivamente in questo modo, devono necessariamente esserci delle ragioni. Partiamo dalla prima questione: Israele. L’infame speculazione ideologica, morale e politica sulla tragedia dell’Olocausto e sulle milioni di persone, non solo ebree, massacrate nei lager nazisti, è ciò che consente a Israele di fare il bello e il cattivo tempo nei territori palestinesi occupati e in tutto il Vicino Oriente. E’ ciò che giustifica i suoi crimini spacciati per una sorta di compensazione per i torti subiti. Per questa ragione il dramma dell’ Olocausto, che non è figlio del demonio o della mente di un folle, ma l’ inevitabile e logica conseguenza di un imperialismo criminale (come altri), quello nazista e dei regimi fascisti suoi alleati, armato di una ideologia razzista (come altre), è stato elevato ad una sorta di nuova ideologia, di nuova religione secolarizzata. L’Olocausto è stato quindi eretto a “male assoluto” per eccellenza, dopo naturalmente essere stato decontestualizzato e destoricizzato dal punto di vista storico e politico. Questa operazione si è resa necessaria perché si doveva invece contestualizzare, per poterlo giustificare, l’altro genocidio, quello atomico, scatenato sul Giappone dagli USA (Hiroshima e Nagasaki necessarie per porre fine alla guerra…). Tale speculazione ideologica ha come “mission” anche e soprattutto quella di paralizzare psicologicamente l’opinione pubblica mondiale e in particolare europea, attraverso un processo sistematico (già avvenuto) di interiorizzazione del senso di colpa per quanto accaduto (i lager nazisti, la persecuzione e il genocidio degli ebrei). Naturalmente la storia è zeppa di genocidi, basti pensare a quello commesso dai bianchi, liberali anglosaxon protestant ai danni dei nativi americani o a quello dei cattolicissimi spagnoli e portoghesi in America Latina e tutti insieme allegramente quello perpetrato nei confronti degli africani deportati e ridotti in schiavitù (solo per citare i più noti…). Non ci risulta però che quel genocidio abbia avuto effetti psicologicamente paralizzanti né che abbia creato particolari sensi di colpa nell’opinione pubblica americana, tant’è che gli USA hanno continuato fin da allora indisturbati nelle loro politiche e guerre imperialiste in tutto il mondo. Anzi, quel genocidio è stato di fatto anch’esso inserito, pur in seguito ad una specie di lavacro purificatore (l’industria cinematografica americana è stata determinante in tal senso), in quella sorta di “messianica vocazione civilizzatrice” che l’America ha da sempre attribuito a se stessa e di cui si è auto investita (senza che nessuno glielo abbia mai chiesto, ovviamente…). L’altra considerazione, di natura politica (ma non separabile da quella ideologica) è la seguente: se ciò è accaduto è dovuto al fatto che evidentemente il sistema capitalistico occidentale è in larga parte dominato dai gruppi di potere economici e finanziari sionisti (è bene ricordare che ebraismo e sionismo non devono essere assolutamente sovrapposti) che sono in grado di esercitare un peso e un condizionamento determinanti sui governi occidentali e in particolare su quello americano, al punto di determinarne le scelte politiche strategiche e anche l’ideologia di riferimento. L’ideologia femminista, mutatis mutandis, segue esattamente lo stesso percorso perché basata, concettualmente parlando, sullo stesso identico senso di colpa scientemente instillato nella psiche degli uomini. La narrazione femminista ha infatti come presupposto un postulato che, in quanto tale, non può essere messo in discussione, e cioè l’oppressione millenaria del genere femminile da parte di quello maschile. Tutto ciò genera e ha generato negli uomini un senso di colpa profondo e inestinguibile che essi hanno interiorizzato (né più e né meno di come gli europei hanno interiorizzato il senso di colpa per la Shoah) finalizzato a paralizzarli psicologicamente frustrando sul nascere la possibilità stessa da parte loro di abbozzare una critica. Anche il deterrente, non a caso, è lo stesso, anche se agisce su un piano simbolico ancora più profondo perché va a toccare l’identità sessuale degli uomini, sia come genere che come singoli individui: ostracismo, emarginazione sociale e umana, esposizione al pubblico (e anche privato, in questo caso) ludibrio, chiusura di ogni spazio pubblico e il più delle volte anche privato, fine di ogni possibilità di inserimento, di carriera o di promozione sociale. Non possiamo ora entrare nel merito, per ovvie ragioni di tempo e spazio e data la complessità del tema. Quello che voglio evidenziare in questa sede è come queste ideologie siano molto simili dal punto di vista del metodo (e in parte anche del contenuto). La prima specula su un fatto certo, l’Olocausto, la seconda sulla base di un postulato (l’oppressione millenaria del genere femminile da parte del genere maschile) dato però per certo e innegabile né più e né meno del primo (la condizione del genere femminile, nella sua totalità, viene dal femminismo equiparata a quella degli ebrei nei lager o degli schiavi neri nelle piantagioni di cotone americane o di qualsiasi altra etnia, gruppo sociale o comunità che sia stata oppressa nel corso della storia). Non è casuale, in entrambi i casi, che chi osa mettere in discussione o semplicemente criticare queste due ideologie, viene accusato di negazionismo. Accusa infamante che serve e a creare un clima di terrore psicologico finalizzato a sua volta a frustrare sul nascere ogni possibile critica. Ma tutto ciò, sempre alla luce di quella citazione attribuita a Voltaire con cui abbiamo scelto di aprire questa riflessione, ci dice anche altre cose. Ci dice che il sistema (capitalistico) dominante si sente al sicuro al punto tale da consentire una critica anche radicale alla sua stessa struttura economica e politica, ma non al punto tale da consentire una critica altrettanto radicale alla sua ideologia (sovrastruttura), o meglio ad alcune parti della sua ideologia che sono quelle che abbiamo appena posto all’attenzione. E ci dice anche che la sovrastruttura può assumere talvolta, come in questi casi, una funzione strategicamente ancora più importante della struttura (alla quale è comunque strettamente legata), se è vero che i rapporti di produzione capitalistici possono essere criticati (per lo meno in questa fase…) ma non la legittimità dello stato di Israele e la narrazione femminista. Se è dunque vera l’affermazione di Voltaire, e se è vero che la “questione israeliana” e il femminismo sono sottratti ad ogni possibilità di radicale critica e non possono essere messi in discussione senza essere sanzionati (per ora solo nelle forme suddette), se ne deve necessariamente dedurre che la catena di comando di questo sofisticato e complesso sistema di potere che è l’attuale dominio capitalistico, vede al suo vertice quelle due istanze ideologiche. La logica mi dice questo. Sempre pronto laicamente a ricredermi, però a colpi di logica e non di chiacchiere, finte di corpo, come si usa dire in gergo calcistico, o arrampicate sugli specchi. Fonte: http://www.linterferenza.info/

mercoledì 27 gennaio 2021

IL COLORE DELLA TERRA (PARTE SECONDA)

Il colore della terra Discorso del subcomandante Marcos, tenuto a San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, sabato 24 febbraio. Compagni e compagne, basi d'appoggio, miliziani e insorti dell'Ezln, fratelli della società civile nazionale e internazionale: attraverso la mia voce parla la voce dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale. Raccontano i nostri vecchi più vecchi che i primi di queste terre videro che i dzules, i potenti, vennero ad insegnarci la paura, vennero a far appassire i fiori e, affinché il fiore del potere potesse vivere, sciuparono il nostro fiore. Dicono i nostri più antichi che è marcia, la vita dei potenti, che il cuore dei loro fiori è morto, che lo strappano fino a romperlo, che distruggono e svuotano i fiori degli altri. Raccontano e dicono i nostri predecessori che il primo fiore di queste terre, della terra prese il colore per non morire, che, piccolo, resistette e che nel suo cuore conservò il seme affinché, con il cuore come terra, un altro mondo nascesse. Non il mondo più antico, non il mondo che il potente faceva marcire. Un altro mondo. Uno nuovo. Uno buono. "Dignità" è il nome di quel primo fiore e deve molto camminare perché il seme incontri il cuore di tutti e, nella gran terra di tutti i colori, nasca finalmente quel mondo che tutti chiamano "domani". Oggi la dignità sta in chi prende, con le nostre mani, questa bandiera. Finora non c'è un posto in lei per noi, noi che siamo il colore della terra. Finora abbiamo aspettato che quegli altri che sotto di lei si proteggono accettassero che fosse pure nostra la storia che la fa ondeggiare. Noi indigeni messicani siamo indigeni e siamo messicani. Vogliamo essere indigeni e vogliamo essere messicani. Però il signore dalla lunga lingua e dallo scarso udito, colui che governa, ci offre menzogne e non la bandiera. La nostra è la marcia della dignità indigena. La marcia di noi che siamo del colore della terra e la marcia di tutti quelli che sono di tutti i colori del cuore della terra. Sette anni fa la dignità indigena chiese a questa bandiera di avere un posto dentro di lei. Con il fuoco parlò allora il colore che siamo della terra. Con menzogne e fuoco rispose il dzul, il potente, che del denaro ha il colore che appesta la terra. Però allora altre volte venimmo ed ascoltammo altri colori. Questi altri non colpivano il giorno, non cozzavano con la notte, non avevano la gola contorta, né svogliata la bocca che parla la parola. Fratelli son quelli che con i loro colori ci affratellano. Con loro, con i fratelli colori, cammina oggi il colore della terra. Con dignità cammina e cerca con dignità il suo posto nella bandiera. Hanno il loro governo i potenti, però i loro re sono falsi. Hanno la gola contorta e svogliata la bocca di chi comanda ed ordina. Non c'è verità nella parola dei dzules, dei potenti. Oggi camminiamo perché questa bandiera messicana accetti d'essere nostra e invece ci offrono il drappo del dolore e della miseria. Oggi camminiamo per un buon governo e ci offrono la discordia. Oggi camminiamo per la giustizia e ci offrono elemosina. Oggi camminiamo per la libertà e ci offrono la schiavitù dei debiti. Oggi camminiamo per la fine della morte e ci offrono una pace di menzogne assordanti. Oggi camminiamo per la vita. Oggi camminiamo per la giustizia. Oggi camminiamo per la libertà. Oggi camminiamo per la democrazia. Oggi marciamo per questa bandiera. Non basta la nostra sola voce ad aprire le orecchie del signore dalla lunga lingua e dallo scarso udito, di colui che governa. Non bastano le molte voci che camminano perché taccia e ascolti colui che con molto rumore regna. Tutti i passi sono necessari, sono necessarie tutte le voci. Con tutti, è questo che vogliamo: un posto in questa bandiera. Ha nome questo nostro passo, ha parola la voce che ci parla: questa è la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra. Compagni e compagne dell'Ezln: per sette anni abbiamo resistito ad attacchi di tutti i tipi. Ci hanno attaccato con bombe e proiettili, con torture e carcere, con menzogna e calunnie, con disprezzo e oblio. Però siamo qui. Siamo la dignidad rebelde. Siamo il cuore dimenticato della patria. Siamo la memoria più antica. Siamo il nero sangue che fra le montagne illumina la nostra storia. Siamo coloro che lottano e vivono e muoiono. Siamo coloro che parlano così: "Tutto per tutti, niente per noi". Siamo gli zapatisti, i più piccoli di queste terre. Salutiamo i popoli indigeni che ci comandano e proteggono. Salute al loro saggio sapere ed alla loro intelligenza. Salutiamo i nostri e le nostre combattenti insurgentes, che oggi fra le montagne vegliano perché nulla di male succeda a quelli che oggi sono una luce momentanea. Salutiamo tutti gli zapatisti che oggi parlano attraverso la nostra voce e vanno col nostro passo. Salutiamo gli zapatisti, i più piccoli di queste terre. Come i nostri predecessosi resistettero alle guerre di conquista e di sterminio, noi abbiamo resistito alle guerre dell'oblio. La nostra resistenza non è terminata, però non è più sola. Ci accompagnano ora i cuori di milioni, nel Messico e nei cinque continenti. Con loro va insieme il nostro passo. Con loro andremo alla capitale della nazione che sulle nostre spalle si innalza e ci disprezza. Con loro andremo. Con loro e con questa bandiera. Compagni e compagne: il signor Vicente Fox vuole dare un nome a questo passo con cui oggi andiamo. "E' la marcia della pace", dice, e tiene i nostri fratelli detenuti per il reato peggiore del mondo moderno: la dignità. "E' la marcia della pace" dice, e tiene il suo esercito ad occupare le case di Guadalupe Tepeyac, mentre centinaia di bambini, donne, anziani ed uomini guadalupani restano fra le montagne, resistono con dignità. "E' la marcia della pace", dice, e cerca di convertire in merce la nostra storia. "E' la marcia della pace", dice, e quelli a lui vicino sottovoce aggiungono: "Di menzogne". Questo dice. Però i nostri passi parlano un'altra parola ed è quella vera: questa è la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra. Fratelli e sorelle: Oggi, 24 febbraio 2001, giorno della bandiera del Messico, noi zapatisti iniziamo questa marcia, la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra. Non è solo il nostro passo. Con noi vanno i passi di tutti i popoli indigeni e i passi di tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli anziani che nel mondo sanno che nel mondo ci stanno tutti i colori della terra. Noi indigeni messicani abbiamo colorato questa bandiera. Con il nostro sangue le abbiamo dato il rosso che la adorna. Con il nostro lavoro mietiamo il frutto che il verde dipinge. Con la nostra nobiltà facciamo bianco il suo centro. Con la nostra storia abbiamo disegnato l'aquila che divora il serpente perché Messico si chiamassero il dolore e la speranza che siamo. Noi abbiamo fatto questa bandiera e, di certo, non abbiamo un posto in essa. Oggi chiediamo a quelli che in alto sono potere e governo: chi è che ci nega il diritto a che questa bandiera sia finalmente nostra? Chi è che brilla per non ricordarsi e dimentica che, essendo come siamo il colore della terra, che abbiamo dato colore e scudo a questa nostra bandiera? Da quasi duecento anni cammina questa terra chiamandosi nazione e patria e casa e storia. Da quasi duecento anni va avanti mietendo il nostro sangue e dolore, la nostra miseria, affinché Messico sia patria e non una vergogna. Da quasi duecento anni continuiamo a stare fuori dalla casa che dal basso abbiamo costruito, che abbiamo liberato, dove viviamo e moriamo, noi che siamo il colore della terra. Adesso basta, ¡ya basta!, dice e ripete la voce più antica, noi indigeni che siamo il colore della terra. Vogliamo un posto. Abbiamo bisogno di un posto. Ci meritiamo un posto, noi che siamo il colore della terra. Un posto degno per essere quello che siamo noi, il color della terra. Per non essere più l'angolo dell'oblio. Per non essere più oggetto di disprezzo. Per non essere più motivo di schifo. Per non essere più la nera mano che riceve elemosina e lava coscienze. Per non essere più la vergogna del colore. Per non essere più la pena della lingua. Per non essere più l'umiliazione o la morte per sentenza. Perciò questa è la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra. E comincia questa marcia oggi che la luna è nuova, affinché la terra mieta alla fine la giustizia per quelli che sono il colore della terra. E comincia oggi una marcia che non è solo nostra, ma di tutti quelli che sono il colore della terra. E comincia oggi il terremoto più grande e primordiale, la memoria di colui che ci ha fatto nazione, ci ha dato la libertà e ci ha dato la grandezza. Comincia la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra. Con quelli che sono il colore della terra, altri colori lontani stanno attenti a ciò che oggi comincia: la possibilità che l'altro possa esserlo senza vergogna. Che il diverso sia uguale nella dignità e nella speranza. Che il mondo sia in fine un posto di tutti e non la proprietà privata di coloro che hanno del denaro il colore e lo sporco. Un mondo con il colore dell'umanità. Fratelli e sorelle: coloro che sono governo si sforzano oggi di fare di questa marcia la marcia della pace bugiarda. Non sono soli nella menzogna, coloro che governano. Con loro vanno i passi di coloro che vogliono morto il nostro passo e morto per sempre il colore della terra. Con loro vanno coloro che non ammettono nel mondo un altro colore che non sia il colore del denaro e della sua miseria. Molto grida e gesticola chi è governo, il suo fiato sa di menzogna e vuole che facciamo nostra la paura che insegna. Ci vogliono far del male e sottrarre la nostra forza. Però sarà inutile. Con tutti i colori, il fiore che siamo del colore della terra, avrà un domani perché avrà la bandiera. Con lei e per lei, noi popoli indigeni avremo finalmente... Democrazia! Libertà! Giustizia! Dalle montagne del sudest messicano Comitato clandestino rivoluzionario indigeno - Comando generale dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale Messico, 24 febbraio 2001, giorno della bandiera (tradotto dal Comitato Chiapas di Torino) "Marcos scomparirà" Intervista del subcomandante Marcos a Ignacio Ramonet Questa intervista, comparsa su Le Monde lunedì 26 febbraio, è parte di un testo molto più lungo, ed elaborato diversamente, che Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde diplomatique, pubblicherà sul suo mensile, in edicola in Francia ai primi di marzo e, in Italia (con il manifesto) a metà mese. Ignacio Ramonet Tutto comincia con una lettera del subcomandante Marcos, che ricevo a Parigi, nella quale egli mi annuncia la marcia dei dirigenti zapatisti su Città del Messico, dal 25 febbraio all'11 marzo, e mi dice allo stesso tempo: "Dato che lei ha seguito da vicino i principali avvenimenti di questi tempi globalizzati, la sua visione ampia e le sue profonde conoscenze della 'macchina' neoliberista sapranno riconoscere il desiderio di giustizia che alimenta la nostra causa". E mi invita ad accompagnarlo in questa marcia. Impegni precedenti in quelle stesse date, che non posso evitare, mi impediscono di accettare il suo invito. Ma mi sento molto frustrato. La marcia degli zapatisti verso Città del Messico è, come dice Carlos Monsiváis, "una idea geniale", che ha sconcertato tutta la classe politica messicana, la quale non si è ancora ripresa dallo choc del 2 luglio 2000, quando, dopo settant'anni di potere, il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) ha perduto le elezioni presidenziali. Lo stesso Fidel Castro, un maestro della comunicazione politica, che non si era mai espresso pubblicamente a proposito degli zapatisti, ha ammesso che con questa idea della marcia "Marcos dà una lezione di buon uso del simbolismo politico". Rispondo a Marcos che non posso seguire la marcia, ma che mi piacerebbe andarlo a trovare nella sua base nella selva Lacandona, perché mi spieghi l'obiettivo di questa marcia e i suoi progetti per il futuro. Marcos accetta. E dopo un viaggio spossante e sette ore di strada bianca di montagna, raggiungo infine La Realidad, il simpatico villaggio nel cuore della piovosa selva Lacandona, vicino alla quale si trova il quartier generale clandestino di Marcos. Il quale mi riceve con puntualità, accompagnato dal comandante Tacho e dal maggiore Moisés. Ha letto i miei libri, e io ho letto tutti i suoi scritti (oltre a diversi libri su di lui, in particolare "Marcos, el senor de los espejos", di Manuel Vázquez Montalbán), così cominciamo a conversare come vecchi amici. Pensi sia stato lo zapatismo a sconfiggere il Pri, il 2 luglio 2000? Noi abbiamo indiscutibilmente fatto parte delle forze che hanno sconfitto il Pri. Come a livello mondiale, noi ci vediamo come un sintomo, a livello messicano, c'erano una serie di forze che resistevano al Pri, più o meno combattive, e una di esse è l'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln). Ma, fondamentalmente, che hi vinto sul Pri è stata la società non organizzata. Questa società indefinita, non organizzata, approfitta di una apertura (le elezioni del 2 luglio 2000) e, opponendosi a una grande campagna di corruzione lanciata dal governo Zedillo e dal Pri per conquistare ancora una volta la presidenza, decide di dire: no! Resta da sapere che cosa diceva esattamente questa società. La risposta a questa domanda resta aperta. Il "no" non significa probabilmente un avallo alla destra, né al Pan (Partito di azione nazionale), né a Fox (Vicente Fox, presidente della repubblica, membro del Pan). Il paese è ancora sotto lo choc della sconfitta storica del Pri. In che misura questo momento molto particolare permette all'Ezln di lanciare nuove iniziative politiche, come la marcia dei "comandanti" zapatisti su Città del Messico? Il paese vuole costruire, a partire dalla caduta del Pri, qualcosa di nuovo. E noi pensiamo per parte nostra che in questo momento, insieme alla società, i popoli indigeni che noi siamo possono costruirsi uno spazio. Senza voler dare una collocazione egemonica a questo progetto nuovo per il paese, ma senza nemmeno accettare che la storia si ripeta e che noi restiamo indietro, alla coda. Noi siamo fieri di esserci ribellati. Non solo contro un sistema ingiusto, ma anche contro un sistema che ci assegna il ruolo di mendicanti e che ci tende la mano solo per darci l'elemosina. Noi pensiamo sia il momento di costruirci una collocazione degna e di contribuire, nella nostra qualità di popoli indigeni, alla costruzione di uno Stato nazionale in Messico più giusto e più solidale. In questo progetto, non vi è alcuna ragione per la quale il nostro posto debba essere l'ultimo. Noi non vogliamo essere di nuovo l'ultima ruota della vettura o l'ultimo vagone del treno, ma una parte degna in questa geografia di ricostruzione. Nella globalizzazione attuale, si assiste alla ripartizione del mondo e le minoranze indocili si vedono assegnare degli angoletti. Ma, sorpresa, il mondo è rotondo! E una delle caratteristiche della rotondità è che non ha angoli. Noi vogliamo che non ci siano più angoli per sbarazzarsi degli indigeni, delle persone che disturbano, per metterle in un angolo come si mettono i rifiuti in un angolo affinché nessuno li veda. Uscire, per la prima volta dal 1994, dalla selva Lacandona, dal Chiapas, e marciare su Città del Messico, rappresenta la fine di un ciclo per lo zapatismo. Qualcuno pensa che questa marcia sia un'idea geniale, altri pensano che tu e gli altri comandanti correte un rischio mortale. Come è stata presa la decisione di organizzare una tale marcia? La marcia è una follia. Ma noi pensiamo che, dopo il 2 luglio, ci sia un altro paese, un altro Messico. E noi non possiamo mantenere la stessa attitudine di prima. Il paese è in pieno dibattito. Noi abbiamo analizzato i risultati delle elezioni, e queste rivelano che la società messicana è più politicizzata, meglio informata e più desiderosa di partecipare alla politica. Noi crediamo fondamentalmente che tutta la società messicana, come la società internazionale, sia convinta che la situazione attuale dei popoli indigeni è insostenibile e che bisogna porvi rimedio. Di conseguenza, noi ci troviamo in un momento in cui convergono molte situazioni che rendono possibili che questo debito, che la nazione messicana ha verso gli indigeni, sia saldato. E comprendendo che la nazione messicana è formata da popoli differenti, contrariamente a quel che hanno affermato tutti i governi federali fin da Juarez, secondo i quali si tratta di una nazione fondamentalmente meticcia. No. E' una nazione formata da differenti popoli. Per il momento, tutti quanti sembrano sostenere questa marcia. Fino al presidente Fox, che ha chiamato "la nazione intera" ad appoggiarla. Come credi reagirà, la società, al passaggio della carovana zapatista? La società risponderà. Essa comprende che gli indigeni lottano per occupare il loro posto. Noi non vogliamo più essere degli spettatori, o che qualcuno risolva il nostro problema per noi. E' il momento. La marcia, oltre a risolvere il problema dei popoli indigeni, apre le porte all'Ezln; agli zapatisti, ai guerriglieri armati e incappucciati, dà loro la possibilità di fare della politica senza "glamour" o senza il muro dei passamontagna e delle armi. Per noi, finché restiamo così e qui, il progetto politico ha questa limitazione. Mentre noi vogliamo qualcosa che ci proietti oltre, e non qualcosa che ci limiti. Ed è per questo che osserviamo anche che non tutti sostengono questa marcia. Noi vediamo la reazione della destra messicana o dei grandi settori del denaro a Città del Messico alla nostra uscita. Essi dicono: "Noi non sapremo che farcene di loro quando saranno usciti alla luce e quando faranno della politica. Il problema non è il passamontagna, il problema è che noi non vogliamo che escano alla luce. Noi non vogliamo che si arrivi a un accordo di pace. OK, che compaiano nei media, che tengano le loro conferenze stampa, che li si intervisti, che si formino carovane di aiuti, ma bisogna che non vengano a Messico a far politica, perché il loro progetto disturba il nostro gioco. Noi non vogliamo degli zapatisti che fanno politica alla luce del sole. Noi non vogliamo la pace. D'accordo, è molto costoso eliminarli militarmente, ma noi possiamo sempre scommettere sulla lunga distanza, si spegneranno politicamente. Il tuo rapporto con la violenza è singolare. Tu incarni in un certo modo l'antiterrorismo. Lo zapatismo è un movimento armato, ma non ha mai fatto un attentato. Tanto meno reclamate l'indipendenza, o la secessione; al contrario, esigete che il Chiapas sia mantenuto integro nel seno dello Stato messicano. Che genere di guerriglia conduce, l'Ezln? Benché gli indigeni siano i più dimenticati, l'Ezln ha preso le armi per reclamare democrazia, libertà e giustizia per tutti i messicani, e non solamente per gli indigeni. Noi non vogliamo l'indipendenza, noi vogliamo far parte del Messico, essere degli indigeni messicani. L'Ezln è organizzato come un esercito e rispetta tutte le convenzioni internazionali per essere riconosciuto come un esercito. Noi abbiamo sempre rispettato le leggi di guerra. Dichiariamo le ostilità secondo le regole, abbiamo delle uniformi, dei gradi e delle insegne riconoscibili e rispettiamo la popolazione civile e gli organismi neutrali. L'Ezln ha delle armi, una organizzazione e una disciplina militari, ma non pratica il terrorismo e non ha mai commesso attentati. L'Ezln lotta perché non sia necessario essere clandestino e armato per combattere per la giustizia, la democrazia e la libertà. Ecco perché diciamo che noi lottiamo per scomparire. In uno dei tuoi testi avevi annunciato, anni fa, la tua intenzione di marciare su Città del Messico dove lo zapatismo, come lo conosciamo oggi, potrebbe sparire e convertirsi in un partito normale. Mantieni questo progetto? Sì. Per trasformarci in organizzazione politica. Noi stabiliamo una differenza tra partito e organizzazione. Perché il nostro progetto politico non è prendere il potere. Non è di prendere il potere con le armi, né tanto meno per la via elettorale, né per un'altra via "golpista", ecc. Nel nostro progetto politico, noi diciamo quel che c'è da fare, che è sovvertire il rapporto di potere, tra le altre ragioni per il fatto che il centro del potere non è più negli Stati nazionali. Dunque non serve a niente conquistare il potere. Un governo può essere di sinistra, di destra, centrista e, al dunque, non potrà prendere le decisioni fondamentali. Ciò di cui si tratta, è costruire un'altra relazione politica, di andare verso una "cittadinizzazione" della politica. Alla fine, quelli che danno un senso a questa nazione siamo noi, i cittadini, non lo Stato. Noi faremo una politica senza passamontagna, ma con le stesse idee. Dopo l'arrivo della marcia a Città del Messico, domenica 11 marzo, Marcos scomparirà? Quel che cambierà, una volta firmata la pace, è che un'organizzazione politico-militare, com'è l'Ezln, smetterà di esserlo. Questa organizzazione cesserà di avere i rapporti di comando che esistono in una struttura politico-militare. E, fondamentalmente, la figura di Marcos si è costruita attorno a questo movimento. Quando Marcos parla, è un movimento, un collettivo a parlare. Ed è quel che dà la forza e l'interesse a quel che Marcos dice. Che questo movimento si trasformi e, cessando di essere un esercito, divenga una forza politica è quel che farà sì che nulla sia più uguale. E' probabile che si scoprirà allora che la qualità letteraria dei testi del subcomandante non era così buona come si pensava. Che le sue analisi critiche o da scienziato sociale non erano così giuste, ecc. Dal momento in cui sparirà, la figura di Marcos, con tutto ciò che la circonda, sarà smitizzata. Questo non significa che Marcos smetterà di lottare, che Marcos si dedicherà alla coltivazione dei legumi o a qualcos'altro. Però tutto quel che ha reso possibile Marcos, l'Ezln, sarà radicalmente midificato. Traduzione dell'articolo di Alain Touraine, La Jornada 9 marzo 2001 L'incontro zapatista con la nazione. Quando è cambiata la politica del governo messicano, esisteva un rischio reale di dissoluzione del movimento zapatista. Oggi, l'eco riscontrato dalla marcia verso Città del Messico e, diciamolo chiaramente, l'impegno personale del presidente Fox, rendono poco probabile tal epilogo. I zapatisti si sono guadagnati il rispetto e l'ammirazione di tanti: il loro movimento è il più importante del continente americano. Ma soprattutto, questo movimento di difesa dei popoli indigeni ha saputo trasformarsi in un'ampia azione per allargare la democrazia in Messico, che va molto al di là del riconoscimento dei diritti indigeni, liberandosene di quel falso meticciato che è servito solo a privare gli indigeni di ogni riconoscimento della loro identità culturale e dei loro diritti materiali. Ovviamente i zapatisti lavorano per dare a tutti gli indigeni un'espressione collettiva. Ma il loro ruolo può e deve essere più ampio. In Messico più della metà della popolazione è fuori gioco, della politica, dell'economia e della cultura. E gli indigeni, che rappresentano intorno al 10 per cento della popolazione, sono una minoranza tra gli esclusi e gli emarginati. Come può il Messico, dopo la caduta del Pri, creare un sistema politico se la metà della popolazione continua ad esserne fuori? Questo è, a mio avviso, il senso della situazione attuale, e specialmente della complementarietà esistente tra gli obiettivi zapatisti e quelli del presidente. Lui cerca di allargare il sistema politico, e sembra essere deciso a farlo prescindendo di una campagna populista. Da parte loro, i zapatisti, che si suiciderebbero politicamente se entrassero in un partito politico, possono trasformarsi in un movimento il cui obiettivo sia l'integrazione degli esclusi nella vita nazionale. Questa doppia iniziativa è talmente originale che trova reticenze e opposizioni. Quella del presidente Fox può scontrarsi con importanti politici, con partiti - incluso il suo - disorientati, e con il rifiuto della classe media verso le categorie più svantaggiate. I zapatisti hanno come principale ostacolo quello di superare l'arcaismo di una sinistra - per fortuna, principalmente straniera - che cerca di rivivere l'epopea del Che, mentre non c'è niente di più lontano dalle passate guerriglie che la politica di Marcos, e che non distingue tra l'ampliamento della democrazia messicana e la difesa della popolazione del Chiapas. Le giornate che stiamo vivendo dall'inizio della marcia zapatista sono decisive. O questa marcia finisce con la dissoluzione del movimento zapatista, o, per il contrario, questo trova nuovi obiettivi, molto più ampi, direttamente democratici e che conteranno con l'appoggio di tutti quelli che vogliono costruire un vero sistema politico in Messico. Quello che sta succedendo in questi momenti oltrepassa ogni previsione. Nessuno immaginava che il movimento zapatista potesse trovare così rapidamente un appoggio popolare di tale entità, e neanche che il presidente Fox si sarebbe impegnato in maniera così decisa. Il Messico conta oggi con una possibilità che fino ad ieri non aveva: trasformare la propria vita politica, e in primo luogo, la propria concezione di nazione e di democrazia. Sarà riconosciuto mondialmente come un grande paese solo se riesce a realizzare questo cambiamento. I zapatisti sono stati, sono e saranno uno degli agenti principali di questa trasformazione. E il popolo messicano, nel riceverli e accompagnarli, ha dimostrato la sua capacità di riuscire ad avviare progressi decisivi per il paese. Traduzione dell'articolo di Alain Touraine, La Jornada 9 marzo 2001 L'incontro zapatista con la nazione. Quando è cambiata la politica del governo messicano, esisteva un rischio reale di dissoluzione del movimento zapatista. Oggi, l'eco riscontrato dalla marcia verso Città del Messico e, diciamolo chiaramente, l'impegno personale del presidente Fox, rendono poco probabile tal epilogo. I zapatisti si sono guadagnati il rispetto e l'ammirazione di tanti: il loro movimento è il più importante del continente americano. Ma soprattutto, questo movimento di difesa dei popoli indigeni ha saputo trasformarsi in un'ampia azione per allargare la democrazia in Messico, che va molto al di là del riconoscimento dei diritti indigeni, liberandosene di quel falso meticciato che è servito solo a privare gli indigeni di ogni riconoscimento della loro identità culturale e dei loro diritti materiali. Ovviamente i zapatisti lavorano per dare a tutti gli indigeni un'espressione collettiva. Ma il loro ruolo può e deve essere più ampio. In Messico più della metà della popolazione è fuori gioco, della politica, dell'economia e della cultura. E gli indigeni, che rappresentano intorno al 10 per cento della popolazione, sono una minoranza tra gli esclusi e gli emarginati. Come può il Messico, dopo la caduta del Pri, creare un sistema politico se la metà della popolazione continua ad esserne fuori? Questo è, a mio avviso, il senso della situazione attuale, e specialmente della complementarietà esistente tra gli obiettivi zapatisti e quelli del presidente. Lui cerca di allargare il sistema politico, e sembra essere deciso a farlo prescindendo di una campagna populista. Da parte loro, i zapatisti, che si suiciderebbero politicamente se entrassero in un partito politico, possono trasformarsi in un movimento il cui obiettivo sia l'integrazione degli esclusi nella vita nazionale. Questa doppia iniziativa è talmente originale che trova reticenze e opposizioni. Quella del presidente Fox può scontrarsi con importanti politici, con partiti - incluso il suo - disorientati, e con il rifiuto della classe media verso le categorie più svantaggiate. I zapatisti hanno come principale ostacolo quello di superare l'arcaismo di una sinistra - per fortuna, principalmente straniera - che cerca di rivivere l'epopea del Che, mentre non c'è niente di più lontano dalle passate guerriglie che la politica di Marcos, e che non distingue tra l'ampliamento della democrazia messicana e la difesa della popolazione del Chiapas. Le giornate che stiamo vivendo dall'inizio della marcia zapatista sono decisive. O questa marcia finisce con la dissoluzione del movimento zapatista, o, per il contrario, questo trova nuovi obiettivi, molto più ampi, direttamente democratici e che conteranno con l'appoggio di tutti quelli che vogliono costruire un vero sistema politico in Messico. Quello che sta succedendo in questi momenti oltrepassa ogni previsione. Nessuno immaginava che il movimento zapatista potesse trovare così rapidamente un appoggio popolare di tale entità, e neanche che il presidente Fox si sarebbe impegnato in maniera così decisa. Il Messico conta oggi con una possibilità che fino ad ieri non aveva: trasformare la propria vita politica, e in primo luogo, la propria concezione di nazione e di democrazia. Sarà riconosciuto mondialmente come un grande paese solo se riesce a realizzare questo cambiamento. I zapatisti sono stati, sono e saranno uno degli agenti principali di questa trasformazione. E il popolo messicano, nel riceverli e accompagnarli, ha dimostrato la sua capacità di riuscire ad avviare progressi decisivi per il paese.

IL COLORE DELLA TERRA (PRIMA PARTE)

"Coloro che difendono il concetto di Nazione sono assassinati o espulsi. Il progetto neoliberista esige questa internazionalizzazione della storia; pretende di cancellare la storia nazionale e farla diventare internazionale; pretende di cancellare le frontiere culturali. Il costo maggiore per l'umanità è che per il capitalismo finanziario non c'è niente... Il capitale finanziario possiede solo dei numeri di conti bancari. E in tutto questo gioco viene cancellato il concetto di nazione. Un processo rivoluzionario deve cominciare a recuperare i concetti di Nazione e Patria." (Subcomandante Marcos)

domenica 24 gennaio 2021

UNA STORIA DIMENTICATA ... SILVIA BARALDINI !!

Dieci anni fa, il 26 settembre 2006, grazie all’indulto, dopo 16 anni di carcere speciale in America, 2 a Rebibbia e 5 di arresti domiciliari, è tornata libera Silvia Baraldini, militante comunista dell’Organizzazione 19 maggio, attivista per i  diritti umani degli afroamericani, condannata a 43 anni di carcere per associazione sovversiva, concorso in evasione, concorso in due tentate rapine, oltraggio alla corte (per essersi rifiutata di “infamare” i suoi compagni). In realtà nei suoi confronti fu applicata la legge Rico, la normativa contro la criminalità organizzata che permette di caricare su ciascun imputato i crimini della gang.


Una condanna enorme se si pensa che, come canta Francesco Guccini, “Silvia non ha mai ucciso e non ha mai rubato niente”…


Quella che segue è la prima intervista che ha potuto rilasciare nel 1992 a Famiglia cristiana.


Per la prima volta il governo degli Stati Uniti ha concesso un colloquio con Silvia Baraldini, condannata a 43 anni per terrorismo


Franca Zambonini

Famiglia Cristiana n.46

18 novembre 1992


I capelli sono tutti grigi, tagliati corti, gli occhi celeste chiaro guardano dritto, il parlare è preciso e non emotivo, con punte di ironia e perfino qualche risata che libera dalla tensione. Nelle cinque ore passate con lei, Silvia Baraldini mi è parsa nel complesso serena per essere una donna di 44 anni condannata dalla giustizia americana a 43 anni di carcere.


Ne ha già scontati dieci in varie prigioni degli Stati Uniti. Adesso è detenuta nell’unità di massima sicurezza della Federal Correction Institution, la prigione federale di Marianna, Florida.


Questa è la prima intervista che le è stato concesso di rilasciare. Né io né Silvia sappiamo spiegarci perché. Forse, ma è solo una mia ipotesi, il permesso d’incontrarci rappresenta un minuscolo gesto di comprensione dopo che a Silvia è arrivata, proprio in questi giorni, l’ultima botta: le autorità americane hanno respinto per la seconda volta la richiesta delle autorità italiane di estradarla per farle scontare il resto della pena in un carcere nostrano. Eppure in suo favore erano intervenuti negli anni Cossiga, Andreotti, De Michelis, Martelli, dall’alto dei loro incarichi pubblici. Niente da fare. “Ma no, non è stata questa gran botta. Me l’aspettavo. Il trauma vero l’ho avuto quando mi hanno negato l’estradizione la prima volta, il 20 dicembre del 1990. Comincia a prepararti per il ritorno, mi scrivevano i miei amici dall’ Italia. Quel “no” inatteso è stato uno choc duro da assorbire”.


L’estradizione era stata chiesta in base alla Convenzione di Strasburgo, che concede a un condannato in un altro Paese di scontare la pena in un carcere del Paese d’origine. Perchè nel suo caso gli americani hanno detto no, pur avendo sottoscritto la Convenzione?


“Ho molti dubbi sul comportamento delle autorità italiane. Il periodo in cui fu avanzata la richiesta coincideva con lo scandalo della filiale di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro, che aveva prestato miliardi a Saddam Hussein. Adesso i giornali rivelano che alcuni politici italiani fecero pressioni presso l’allora ministro della Giustizia Richard Thornburg affinchè il ruolo dei funzionari italiani della Bnl in quella vicenda venisse ignorato o non sottolineato. La mia idea è che gli italiani non hanno voluto imporsi con due interventi contemporanei: uno, molto delicato, a favore della Bnl e uno, molto sgradevole, a favore di una persona scomoda come me, cittadina italiana condannata in America per atti di terrorismo”.


Il rifiuto è stato motivato dal viceministro della Giustizia Robert S. Mueller dal “nostro timore che, nel caso tornasse in Italia, la Baraldini sconterebbe una pena sostanzialmente minore di quella comminatale negli Stati Uniti. Tale eventualità sarebbe per noi inaccettabile per i seguenti motivi:


L’estrema gravità dei reati di cui si è resa responsabile;

Il suo protratto rifiuto a collaborare;

L’assenza di pentimento;

il nostro convincimento che, in caso venisse posta in libertà, la Baraldini tornerebbe a svolgere attività delittuose pregiudizievoli per gli Stati Uniti”.

Silvia ha la sua spiegazione: “Dovevo collaborare con l’ Fbi, questo è il punto vero. Quando sono stata arrestata, il 9 novembre del 1982, gli agenti della squadra antiterrorismo dell’Fbi mi hanno offerto 25 mila dollari (in lire, 30 milioni, ndr) per denunciare i compagni. Nel settembre dell’ 85 sono tornati alla carica, e questa volta mi offrivano la libertà. Ho detto di no. Non si sono fatti più vivi. Forse aspettano un mio segnale. Ma per loro non ne ho. Non potrò mai scambiare la mia vita con quella degli altri”.


Non ha mai ucciso nessuno, né sparato contro nessuno. È stata condannata a 40 anni per “cospirazione” in base alla legge “Rico”, più altri tre anni per “sprezzo contro la Corte”. “Rico” è la sigla di Racketeering Influenced and Corrupt Organization Act. è la legge promulgata per colpire la mafia e la criminalità organizzata. Chi fa parte di un’associazione per delinquere diventa automaticamente corresponsabile dei suoi reati più gravi. La “Rico” è stata estesa ai movimenti terroristici. “Io non sono una terrorista, ma una prigioniera politica. In pratica mi sono stati imputati solo due reati concreti: la partecipazione all’evasione della rivoluzionaria nera Joanne Chesimard, che è scappata a Cuba; un tentativo di rapina che non è mai successa. Il resto me lo hanno addossato con la legge “Rico”. Hanno paura che se vengo estradata in Italia sarò scarcerata molto presto? Io non l’ho mai pensato, non vedo in Italia tutte queste scarcerazioni. E temono che se per assurdo tornassi in libertà potrei rappresentare un pericolo per l’America? Ma andiamo, è assolutamente ridicolo che il Paese più potente del mondo abbia paura della povera Baraldini”.


Allora, perché vuol venire a scontare la pena in Italia? “Dopo la morte di mia sorella Marina, mia madre è rimasta sola, voglio esserle vicina anche se in prigione. E poi perché credo che qualsiasi carcere italiano sia meglio di quelli americani, che sono efficienti, pulitissimi, organizzatissimi, ma ignorano i bisogni delle persone detenute”.


Rassegnata? “No, per favore, non voglio usare questa parola. Ho vissuto finora con la speranza di essere estradata, quindi con un piede emotivo in Italia e l’altro reale negli Stati Uniti. Ma ora la realtà è che sono in una prigione americana e ci resterò a lungo.


Questa certezza mi aiuta a darmi uno scopo qui in carcere. Non è questione di resistere. Il 9 novembre finiscono i miei primi dieci anni di detenzione, ne ho passate di peggio e ho dimostrato di saper resistere. Non è neanche questione di sopravvivere al regime carcerario, ma di viverci. Mi sono riorganizzata su questa base. Ho ripreso a studiare per quella laurea in storia che non avevo mai preso”.


Nell’inferno di Lexington


“La mattina lavoro alla biblioteca legale del carcere. Aiuto le altre detenute a scrivere ai giudici, agli avvocati. Poi faccio esercizio fisico, voglio tenermi in forma. Siccome sono la nona nella graduatoria di anzianità carceraria ho ottenuto il privilegio di una cella singola. Questo è un carcere di massima sicurezza, cioè con un livello molto sofisticato di custodia, altoparlanti in cella e il controllo di ogni conversazione, e anche piccoli trasferimenti per una visita sanitaria esigono le manette e la cosiddetta “scatola nera” che non ti permette di muovere le mani… Ma insomma, una come me che ha passato 19 mesi nell’inferno di Lexington qui respira”.


L’inferno di Lexington. Un carcere sotterraneo, sofisticatamente persecutorio inventato per tre detenute irreducibili e la Baraldini era una delle tre: isolamento totale, luci sempre accese, oltraggiose perquisizioni, bagni senza porte, e per tre mesi di fila la tortura della sveglia notturna ogni venti minuti. Con un trattamento simile, noi che eravamo tutte e tre persone adattabili e perfino allegre, ci comportavamo come belve feroci”. Dopo una campagna di denuncia da parte di Amnesty International contro il carcere di Lexington, definito la vergogna di un Paese civile, gli Stati Uniti sono stati costretti a chiuderlo.


A Lexington Silvia si è ammalata di cancro. Attribuisce la malattia a una somatizzazione delle torture psicologiche. È stata trasferita a Rochester e operata due volte, le hanno tolto l’utero. Poi è stata mandata a Marianna.


Marianna, nel Nord della Florida, sorge ai lati della Statale 90. Una cittadina incredibilmente lunga e stretta, sparsa qua e là, due miglia separano la Chiesa Battista dell’Est dalla Chiesa Battista dell’Ovest, il tribunale è distante tre miglia dalla posta, dall’unico motel alla prigione corrono cinque miglia.


Questo nonsenso geografico è stato fondato da uno scozzese di cui non si ricorda il nome, mentre si ricorda quello della moglie: Marianna, appunto. È in mezzo a foreste e acquitrini, i grandi alberi hanno quelle lunghe barbe pendenti che si vedono in tutte le foto della Florida, fa molto caldo e umido, un tempo era il regno degli indiani Seminole, e Seminole si chiama il grande lago. Attira cacciatori e pescatori, produce cocomeri, meloni e zucche venduti in capanne ai lati della strada. Ha una sola industria, la Federal Correction Institution, la prigione federale, molto moderna, costruita nell’88, sparsa anch’essa per miglia su una pianura ondulata e rapata di ogni vegetazione che non sia l’erbetta.


L’Unità femminile di massima sicurezza è a un paio di miglia dall’ingresso centrale, isolata rispetto agli altri edifici. Il mio arrivo è stato preceduto da un lungo carteggio col Dipartimento di Giustizia: mi sono impegnata a studiare le otto pagine del regolamento federale sui rapporti carcerari con la stampa, ad assumermi le eventuali conseguenze dei rischi connessi ad una visita alla prigione, a non introdurre né armi né droga, si capisce, ma neppure soldi, o libri o fogli di carta, a non rivolgere la parola a nessun’altra detenuta che non fosse la Baraldini.


Quando mi presento, alle otto e mezzo di un mattino caldo e nebbioso, le formalità sono tutte gentilmente facilitate. Nessuna perquisizione, borsa, giornali e giacca in un armadietto di cui tengo la chiave, posso portare in mano il registratore, la macchina fotografica e il fazzoletto. Mi stampano sulla mano sinistra un marchio con inchiostro invisibile. Io non lo vedo, ma lo vedono gli occhietti elettronici che mi seguono localizzando ogni mio movimento; una detenuta potrebbe impadronirsi dei miei vestiti per tentare la fuga, ma non di quel mio marchio invisibile senza il quale non farebbe un passo.


Silvia m’è venuta incontro nella stanzetta separata del parlatorio, insieme con la guardiana che assisterà al nostro colloquio. Indossa una maglietta bianca sui jeans, una maglietta “militante” contro l’Aids, con le parole: “Ignoranza uguale Paura, Silenzio uguale Morte”. è un po’ ingrassata rispetto alle sue ultime foto.


“Sì, sto bene. Ho il senso dell’umorismo, mi adatto, riesco a mangiare perfino quel cibo indescrivibile che passano nelle carceri americane”.


Non ha pena per la sua giovinezza sprecata, gli anni migliori buttati via? “Accetto le conseguenze delle decisioni che ho preso. Non puoi tirarti indietro se scopri che le cose sono più dure di come te le figuravi. E poi in prigione ti inventi una vita che ha valori e significato. Vorrei convincere la gente che non sono una vittima delle circostanze, ma una responsabile delle mie scelte. Anche nei periodi più duri, quando ero rabbiosa e malata, ho cercato il lato positivo. Manca la libertà, che è fondamentale. Ma ho interessi, amicizie. A Lexington vincemmo la battaglia contro quel carcere disumano, che non poteva continuare ad esistere per essere usato contro altri dopo di noi. Oggi la maggior parte di noi detenute politiche ci occupiamo di migliorare le condizioni in carcere, abbiamo la capacità organizzativa imparata nei movimenti, i nostri contatti e gruppi di opinione ci danno risorse che possono essere utili alle altre. Qui per esempio, facciamo lavoro di informazione sull’Aids per le detenute: l’ottanta per cento sono condannate per reati di droga. L’Aids è l’epidemia delle carceri americane, una tragedia ignorata dalle autorità”.


“Una brava ragazza con idee sbagliate”


Sua madre Maria Dolores, che vive a Roma, ha detto di lei: “Silvia è una brava ragazza, sono le sue idee ad essere sbagliate”. Riferisco il giudizio e Silvia ha una di quelle risate così sorprendenti dentro queste mura sinistre tinte di bianco accecante “Con mia madre ho un rapporto franco e aperto. La mia detenzione ci ha forzate a parlarci in maniera brutalmente onesta. Per lei e per la mia povera sorella Marina dev’essere stato un gran passo, molto sofferto, quando hanno deciso di appoggiarmi”.


Le sorelle Baraldini, nate a Roma, raggiunsero i genitori negli Stati Uniti quando Silvia aveva 14 anni e Marina 10. Il padre, Michele, era prima dipendente dell’Olivetti a New York, poi impiegato all’ambasciata italiana a Washington (è morto di infarto nel ’68). “In America ci sentimmo subito due spaesate. Marina, soprattutto, non si è mai abituata; finita l’università è tornata in Europa, a 22 anni. Era una ragazza particolarmente intelligente e delicata, ha trovato subito lavoro, prima al Parlamento europeo e poi alla Cee”.


Le due ragazze volevano cambiare il mondo, anche se attraverso strade opposte. La vicenda di Marina, che in Italia aveva smosso l’opinione pubblica in favore della sorella, è tragicamente finita nel 1988. L’aereo su cui viaggiava come capo della missione europea di aiuto ai Paesi del Sahel, è esploso sulla Nigeria, forse per una bomba. Silvia piange ricordando la sorella: “Specialmente negli ultimi tempi avevamo imparato ad appoggiarci a vicenda. Mi sconvolge il pensiero che, se mai tornerò in Italia, non la troverò più”.


Il primo incontro di Silvia con la politica risale al suo ultimo anno di liceo quando entrò a far parte di un gruppo studentesco che appoggiava la protesta per i diritti civili dei neri. Poi si iscrisse all’università statale del Wisconsin, la più impegnata degli Stati Uniti, dove uno sciopero contro la partecipazione americana alla guerra del Vietnam raccoglieva diecimila studenti e durava un mese. Era il leggendario Sessantotto, così esaltante e così infido.


“Io mi trovai molto naturalmente nel cuore del dissenso giovanile. Ho lasciato l’università nel ’70, per impegnarmi a tempo pieno nel movimento di protesta. Parlavo nelle chiese a favore dei diritti dei neri, sono entrata nel comitato di difesa politica di una ventina di Pantere Nere coinvolte in un processo. Infine ho fatto parte del movimento comunista “19 Maggio”, che si ispirava a Malcolm X il rivoluzionario nero. L’accusa contro di me è di essere passata da un appoggio verbale a fatti rivoluzionari”.


È vero? “Questo non l’ho mai detto e non lo dico adesso, perché la mia risposta coinvolgerebbe altre persone. Non posso anteporre il mio benessere a quello di altri. La posizione mia e dei compagni è sempre stata una responsabilità politica collettiva ma non una confessione individuale. D’accordo i tempi sono cambiati. Ma ha ragione Renato Curcio quando sostiene che occorre una soluzione collettiva alla tragedia di quegli anni. Riconosco i cambiamenti enormi del decennio, però preferisco finire la mia condanna, anche se singolarmente ingiusta e persecutoria, piuttosto che compromettere altri compagni”.


Si definirebbe un’irriducibile? “No, questa parola ha un significato politico col quale non sono d’accordo. Anche se le mie idee in molte cose sono cambiate, non posso usare questi cambiamenti per giustificare un pentimentismo che mi porterebbe a collaborare. La pago cara, ma non sono l’unica”.


Come vede il futuro? “Resterò in prigione fino al 2011, con gli sconti per il lavoro e la buona condotta. E a quel punto, finalmente, mi butteranno fuori dagli Stati Uniti e tornerò in Italia”. Di che cosa ha paura? “Mi è successo tanto di tutto che il mio concetto della paura è cambiato. In prigione ho imparato a non reagire immediatamente, ma prima a respirare a fondo, poi aspettare un giorno o due poi valutare le possibilità, e infine scegliere la decisione migliore. Così ho meno paura. Credo sia una buona regola anche per chi sta fuori” 

Fonte : 

https://www.ugomariatassinari.it/ 




... DA SEMPRE L'IGNORANZA FA PAURA E IL SILENZIO È UGUALE A MORTE!! ... 

BOMBACCI, IL COMUNISTA IN CAMICIA NERA...


Gli scherzi della storia. Il primo comunista italiano, amico personale di Lenin, morì da fascista, fucilato a Dongo e poi appeso per i piedi dai suoi ex-compagni a Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Era Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Finì col rappresentare il fascismo socialrivoluzionario.


A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti si occupa in particolare, con dovizia di fonti e di particolari, del ruolo di Bombacci nella Repubblica Sociale a Salò, ne ricostruisce i nessi e la storia, le sue relazioni con Mussolini. E restituisce un personaggio controverso ma cruciale, rimasto a lungo nella penombra perché imbarazzante quasi per tutti, fascisti, antifascisti e comunisti. Bombacci fu una figura leggendaria, un personaggio che meriterebbe un film, una fiction televisiva, una narrazione popolare perché racchiude nella sua esperienza le due principali rivoluzioni del Novecento che si incrociarono nel sangue dopo la Prima guerra mondiale e poi negli ultimi due anni della seconda.


Nel 1921 Nicola Bombacci fondò insieme a Gramsci, Togliatti, Tasca e ad altri fuorusciti dal Psi il Partito Comunista d’Italia. Fu proprio lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. “Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo” così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata. Romagnolo come lui, quattro anni più di Mussolini, maestro elementare pure lui, cacciato anch’egli dalla scuola perché sovversivo, compagno di lotte, di prigione e di giornali del futuro duce, e come lui nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista e fascista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso ed esposto con lui a piazzale Loreto, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva Mussolini (o “l’Italia,” secondo altri).


A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin) e da una famiglia cattolica e papalina di Civitella di Romagna; egli dunque attraversò nella sua vita tutte le fedi nazionali: il cristianesimo, il socialismo, il comunismo e il fascismo. Pagando sempre di persona. L’anno in cui fondò il Pcd’I, Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci/ faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba fluente. Barba e zazzera biondastre e incolte, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce lenta e appassionata, impetuoso oratore e trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: “una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…” Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, perché i suoi occhi e la sua parola stregavano le donne, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio quando questi proclamò a Fiume la Carta del Carnaro.


Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: “li conosco i comunisti, sono figli miei”. Fu Bombacci a organizzare la clamorosa uscita del folto gruppo parlamentare socialista alla Camera il giorno dell’insediamento, prima che parlasse il Re, al grido di Viva il socialismo. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani ad essere ricevuto in separata sede da Lenin nel 1920. Prima di partire, Bombacci ricevette da Lenin denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del Partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincise, forse non casualmente, con il 28 ottobre del 1922 quando i fascisti marciarono su Roma. Fu così che mentre i leader comunisti italiani erano a Mosca a festeggiare la rivoluzione bolscevica, Mussolini conquistava senza resistenze rosse il potere a Roma. Da allora Bombacci, collaboratore della Pravda, diventò un sostenitore dell’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in parlamento. Bombacci poi sostenne la necessità per i comunisti di infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come entrismo negli anni 30). Fu lui il primo comunista a entrare nella Camera dopo l’avvento di Mussolini al potere. Non fu arrestato né aggredito, come si temeva. Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia di Mussolini era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici, a quanto pare, suo tramite. Bombacci andò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin, e fu il più apprezzato tra gli italiani. Incontrò più volte anche Stalin.


Bombacci fu espulso dal partito per deviazionismo e indegnità politico-morale il 1928, dopo aver dato vita al primo traffico commerciale tra l’Italia e l’Urss attraverso un’agenzia di export-import con l’est comunista; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Anche allora si parlò di tangenti, i comunisti lasciarono cadere i sospetti su di lui, ma Bombacci continuò per tutta la sua vita a navigare tra i debiti, aiutato poi proprio dal suo antico compagno e rivale Mussolini. Che prima aiutò i suoi famigliari e poi gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. Mussolini gli finanziò pure l’unico giornale fasciocomunista degli anni Trenta La Verità, che già nella testata ricordava la Pravda. Un giornale odiato da Starace e dai fascisti, che continuò a uscire fino al 1943. Dalle sue pagine fu anche teorizzata l’Autarchia. 

Bombacci perseguì nella rivista il progetto di unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino fino al ’41, quando la rottura del patto Molotov-Ribbentrop e l’alleanza del comunismo con le plutocrazie occidentali lo portò a condannare l’abbraccio con il capitalismo e a schierarsi con il fascismo.


Ai tempi di Salò Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più quella rivoluzionaria e incolta, da Garibaldi o Che Guevara; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati e più borghesi. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista fascista Francesco Grossi lo ricorda così: “con le inflessioni romagnole ineliminabili”, “caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore”. Il suo ruolo nella Rsi fu decisivo: si deve a lui l’uso del termine socializzazione e fu lui a scrivere la prima bozza che dette vita alla Carta di Verona e a sognare, insieme al fascismo di sinistra, la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee.


In quel tempo Bombacci e Carlo Silvestri volevano riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento: Vincenti qui ne approfondisce i passaggi. Con Silvestri Bombacci promosse e sostenne l’estremo tentativo di Mussolini di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria attraverso un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: memorabile fu il suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del 1945, in cui ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in un’ingenua lettera entusiasta a Mussolini. Era ancora convinto che la forza dei discorsi potesse superare la forza delle armi e modificare la realtà. Fu così che Bombacci si ritrovò fino all’ultimo con Mussolini, nella colonna fermata a Dongo. Per essere poi fucilato ed esposto con il cartello di supertraditore. Di lui caduto si ricordano gli occhi azzurri rivolti verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.

MV, prefazione a A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti, Eclettica edizioni (2020) 

http://www.marcelloveneziani.com/

venerdì 22 gennaio 2021

PARENZO E IL LEGO...


David Parenzo a L'aria che tira: "Vedete questo pezzo di Lego?", grottesca performance in tv del soldatino di Giuseppe Conte. 

C'è un nuovo soldatino al servizio di Giuseppe Conte e risponde al nome di David Parenzo. Chi segue La Zanzara lo sa: ora è (quasi, non esageriamo) più filo governista di Marco Travaglio. Sparacchia su Matteo Renzi e sovranisti (in verità, lo fa da sempre) ed è ben fedele alla linea del Pd, ossia in questa peculiare contingenza a quella del presunto avvocato del popolo. E tale fedeltà, David, la dimostra anche a L'aria che tira, il programma di Myrta Merlino su La7, dove con sommo imbarazzo degli astanti si prodiga nel giustificare l'ultima sparata - o proposta indecente - del presidente del Consiglio, il proporzionale (messo sul piatto in Parlamento pur di raccattar consensi e "fiducia" da chi rischia di sparire). Sale in cattedra, Parenzo, armato di un pezzo di Lego grazie al quale spiega al popolino che "il proporzionale è esattamente come questo Lego di mio figlio". Ovvero? "I pezzi li puoi smontare e rimontare, a patto che poi venga fuori una costruzione di senso. Da questa macchinetta ci puoi fare anche un elicottero, i pezzi sono abbastanza intercambiabili in questo momento", pontifica David Parenzo. E insomma, se ne evince che il proporzionale può essere financo un elicottero, dunque può diventare qualcosa di buono, bello, proficuo, utile. E a pensare che il proporzionale sia qualcosa di buono, bello, proficuo e utile, sul globo terracqueo, sono rimasti Parenzo, Conte i cespuglietti parlamentari che flirtano col 2 per cento. 


Fonte: https://www.liberoquotidiano.it/

IL CUORE NEL POZZO ... ALTRA "SCOMODA" VERITÀ !!

La fiction venne trasmessa in Italia su Rai 1 il 6 ed il 7 febbraio 2005 in due puntate.  Era la prima volta che la TV di stato ...